lunedì 27 maggio 2013

ANTARTIDE - MISTERO SOTTO GHIACCIO



ANTARTIDE - MISTERO SOTTO GHIACCIO


ANTARTIDE SENZA GHIACCI

ALTRE FOTO SU :  http://www.edicolaweb.net/antar30g.htm

ATLANTIDE- ANTARTIDE






 Atlantide in Antartide.




Con riferimento ai lavori di F. Barbiero and R. Flem Ath si analizza l'identificazione di Atlantide con l'Antartide. Il clima molto freddo del continente antartico, stretto nei ghiacci da centinaia di migliaia danni, non lascia spazio all'insediamento favorevole di una civiltà tipo quella atlantidea.

Nei primi anni ’70 in Italia uscì un libro intitolato “Una civiltà sotto ghiaccio”, scritto da Flavio Barbiero, un ingegnere laureato a Pisa. Era la prima volta che il nome di Atlantide veniva associato a quello dell’Antartide in una teoria del tutto nuova e che oggi riscuote grande successo sull’onda del best seller “When the sky fell” (“La fine di Atlantide” nella traduzione italiana) di Rand e Rose Flem Ath.

Ci soffermeremo prevalentemente sul lavoro compiuto da Barbiero, in quanto padre della teoria ed esponente di una buona dose di serietà. Egli era a conoscenza delle scoperte e teorie del geologo Charles Hapgood, che nelle sue ricerche aveva riunito una serie di carte nautiche antiche che rappresentavano parti del globo terrestre non ancora ufficialmente scoperte quando esse furono tracciate. Nel suo libro “Maps of the ancient sea kings” passa in analisi le carte più interessanti mostrando i profili delle terre emerse in esse mostrate. La più famosa di tutte è quella appartenuta all’ammiraglio turco Piri R’eis, risalente al 1513 e scoperta a Istanbul nel 1929. Mostra in maniera molto precisa la costa sudamericana affacciata all’Atlantico e così i suoi fiumi e le isolette che stanno innanzi. Più sotto, secondo alcuni, il suo profilo si allungherebbe sino a raggiungere quello dell’Antartide, tracciato così come sarebbe se non fosse coperto da ghiacci. La mappa era una copia parziale (secondo una nota dell’ammiraglio lasciata nella stessa carta) di una delle tante che Colombo aveva portato con sé durante i suoi viaggi oltreoceano. Che effettivamente la parte inferiore della carta dimostri il profilo sgombro dai ghiacci dell’Antartide sembrerebbe accertato. Da qui parte l’ipotesi che una civiltà capace di solcare gli oceani esistette in tempi remotissimi. Tanto più che esistono i mappamondi di Mercatore, Fineo (XVI secolo) e Bauche (1737) che mostrano l’intero continente antartico prima che fosse scoperto nel 1859. Bauche lo rappresenta come formato da due isole. I loro profili non corrispondono esattamente a quelli dell’Antartide (con o senza ghiaccio) e secondo alcuni, sono là a rappresentare un’ignota “terra inferiore” di cui si immaginava l’esistenza e quindi poste nel mappamondo per definizione. Per altri sono invece la prova più genuina che qualcuno deve aver circumnavigato in lungo e largo il globo prima dell’era moderna.



Qualsiasi cosa si voglia credere Hapgood, da geologo, attribuiva la catastrofe dello scioglimento dei ghiacci avvenuta circa 12000 anni fa ad un repentino spostamento dei poli e ipotizzò che la crosta stessa potesse slittare sul mantello (più precisamente in uno strato intermedio semiviscoso chiamato astenosfera) causando la migrazione dei poli. Questa spiegazioni oggi è del tutto confutata dall’esistenza delle zolle terrestri (galleggiano lentamente sul mantello ma non slittano, tanto più repentinamente, e soprattutto non si muovono tutte allo stesso modo impedendo alla crosta di spostarsi uniformemente); tuttavia permane la possibilità, secondo molti geologi, che i poli fossero veramente in posizioni diverse (1) nell’ultima era glaciale, e che anche l’asse terrestre avesse un’inclinazione rispetto all’eclittica diversa da quella odierna (di circa 23 gradi). A questo ci si arriva studiando la distribuzione dei ghiacci e delle specie animali in epoca glaciali. In America i ghiacci arrivavano a coprire gran parte degli odierni USA e in Europa arrivavano fino alle Alpi. In Siberia vivevano i Mammuth, i cui corpi sono stati trovati congelati ancora là, sotto la neve e col cibo non digerito ancora nello stomaco. I Mammuth siberiani, 12000 anni fa, morirono improvvisamente e rimasero ibernati per migliaia di anni. In America furono sterminati insieme a molte altre specie animali da un immane catastrofe geologica che portò ad un nuovo assetto climatico. Proprio prima di tale sconvolgimento una fascia dell’Antartide (quella che dà sull’Atlantico) era libera dai ghiacci grazie a una latitudine più favorevole. Poteva dunque essere abitata e in qualche modo civilizzata. Non solo. Per Barbiero era anche il punto più ovvio da cui la civiltà potesse spargersi in tutti gli altri continenti dando vita alle affinità che oggi troviamo fra Vecchio e Nuovo Mondo. L’epoca della catastrofe che pose fine al Pleistocene corrisponde esattamente a quella data da Platone per la fine di Atlantide. E fu una catastrofe che colpì il globo intero, così come Platone racconta che colpì anche Atene e quindi tutti i paesi del Mediterraneo.



Barbiero spiega in maniera interessante il motivo per cui si tramandò la leggenda di un isola scomparsa. Coloro che probabilmente cercarono di evacuare Atlantide lasciando le coste videro che queste venivano inghiottite dal progressivo aumentare del livello del mare e, se è vero che l’asse terrestre cambiò inclinazione, magari rintracciarla poi facendo riferimento alla volta celeste (in cui la posizione delle costellazioni era ormai traslata) per la navigazione diventava fuorviante e li portava in altri luoghi.



L’Antartide è un’isola continentale oltre Gibilterra (come disse Platone) ed è inoltre ricca di risorse minerarie. Se dovessimo guardare il mondo ponendoci al centro l’Antartide (2) il vero oceano di cui parlava Platone diverrebbe l’oceano mondiale che circonda tutti gli attuali continenti e il “continente opposto” sarebbe il resto del mondo. Però è pur vero che non è di fronte alla Spagna (come dice Platone spesso).



Le carte geografiche erano dunque opera degli Atlantidei residenti in Antartide? Per Barbiero, se veramente Atlantide era la prima civiltà e, durante la sua fine, lasciò sfuggire supersiti qua e là nei continenti, allora deve esistere una qualche rappresentazione di essa, l’isola madre della civiltà. Ed ecco che nel suo libro sfodera una serie di planisferi rappresentanti l’Europa e il mondo conosciuto in epoche medievali e li assimila al profilo dell’Antartide. I risultati però non sono convincenti. La forzatura è evidente. I planisferi antichi erano basati tutti sulle stesse convenzioni: “la terra è piatta e circondata da un oceano rappresentato come un fiume che la richiudeva in circolo”. La forma dell’Antartide è grosso modo circolare e perciò una prima somiglianza viene da questo fatto. Barbiero aggiunge che in questi planisferi sono evidenti i canali rettangolari della piana di Atlantide. In realtà rappresentano le isole del Mediterraneo. Inoltre sarebbero una rappresentazione troppo grossolana della fitta e ordinata rete di canali descritta da Platone. Inoltre chi disegnava quei planisferi sapeva benissimo cosa andava a rappresentare e l’Antartide veramente non c’incastrava lontanamente. Per Barbiero i planisferi erano fatti partendo dalla base di alcune mappe antiche dell’Antartide. Per dire la verità alcuni sembrano rappresentare molto fedelmente l’Europa, altri sembrano solo rappresentazioni grossolane di qualsiasi cosa ma nessuna sembra approssimare nel dettaglio l’Antartide. Anche la descrizione biblica del tempio di Ezechiele non c’incastra nulla con il palazzo di Poseidone in Atlantide, tanto più che dalla Bibbia risulta chiaro che quel palazzo si trova nelle terre mediorientali. Tante sono comunque le persone che cercano di identificarli ad ogni costo.



Comunque sia l’Antartide ha un serissimo motivo per cui non può candidarsi ad essere Atlantide. Infatti se è vero che una parte poteva essere fuori dai ghiacci il resto (oltre il 70%) era coperto da tantissimo tempo dai ghiacci perenni. Questo vuol dire che il clima, globalmente, non poteva essere favorevole e con inverni miti come quello descritto da Platone. I venti provenienti dalla zona ghiacciata avrebbero reso molto rigide anche le temperature della zona libera. Non solo. Platone dice apertamente che tutta l’isola era baciata da un clima favoloso e abbondante di ogni tipo di albero e frutto. Ed allo stesso modo l’isola intera era divisa in dieci regni in cui ciascun re esercitava il proprio dominio. Difficile pensare a qualcuno che si diverta a regnare su una distesa di ghiaccio. Il dialogo di Platone è chiarissimo su questi punti che mai potrebbero trovare conferme nell’Antartide.



Barbiero è arrivato poi a identificare la piana rettangolare nelle banchise di Filchter e Lassiter (3), all’estremo nord dell’isola e non certamente al centro come dice Platone. La città sarebbe sorta nell’odierna isola di Burkner, che in epoca remota era un monte di almeno 700 metri sopra la piana ora coperta dalle banchise. Un monte un po’ troppo alto per costruirci una città intorno. Platone infatti dice che era stata costruita intorno a uno scarso rilievo, quindi a un piccolo colle. 700 metri sono troppi, e classificherebbero il rilievo come una vera e propria montagna.



Tutti i restanti discorsi dell’ing. Barbiero sono talvolta brillanti e verosimili. Rimane però che la geografia dell’Antartide mal si presta a quella dell’Atlantide. Ricordiamo che secondo Platone Atlantide (insieme ad altre isole minori poste davanti e dietro essa) faceva da ponte (quasi in linea retta) tra l’Europa e un continente opposto. Per l’Antartide questa configurazione diventa poco evidente in quanto andando verso Gibilterra si incontra esclusivamente mare aperto.



Flavio Barbiero è stato protagonista anche di due spedizioni in Antartide, anche se poco fortunate per questioni contingenti. In una di esse ha ritrovato il tronco di un albero sotto i ghiacci su cui però non è mai stata effettuata alcuna misura al C14.



Rand e Rose Flem Ath, due coniugi canadesi, con il loro libro best seller nel 1995 hanno ripercorso tutte le tappe di Hapgood ed hanno posto sul banco delle prove un falso incredibile.



Secondo loro la mappa di Atlantide rappresentata dal padre gesuita Kircher nel XVII secolo nella sua opera “Mundus subterraneus” sarebbe un autentica copia di una Egizia. Mai nessuno, nemmeno gli atlantologi più sfegatati hanno avuto il coraggio di dire una cosa simile. L’autore del libro mai ha detto una cosa del genere e nella rappresentazione stessa c’è scritto che essa è disegnata così come gli egizi l’avevano descritta (poiché Platone disse che la fonte del racconto di Atlantide proveniva proprio dall’Egitto). Di conseguenza egli rappresentò una grossa isola fra l’Africa e L’America, così come era ovvio dalla descrizione dei dialoghi platonici.

Per i Flem Ath la grande isola non sarebbe altro che l’Antartide, l’Africa e la Spagna sarebbero il Sud Africa e l’America la Terra di Fuoco cilena. Certamente ci troviamo di fronte a qualcosa di sconvolgente: la spudoratezza di scrivere e divulgare simili informazioni.


Il resto del loro lavoro, molto superficiale rispetto a quello di Barbiero, non aggiunge nulla di nuovo: solo mille congetture più o meno verosimili ma che non posizionano necessariamente Atlantide in Antartide.



Tuttavia il loro lavoro, più di quello di Barbiero, ha raccolto il consenso di scrittori come Colin Wilson, Robert Scoch e Graham Hancock, scrittori di best seller nel campo dell’archeologia alternativa. Da brivido.




FONTE:www.atlantisrevealed.com













sabato 25 maggio 2013

IL FUTURO CHE SALVERA' LA TERRA: Shams, il nuovo tesoro del Medio Oriente

Galileo - Giornale di Scienza | Shams, il nuovo tesoro del Medio Oriente


Shams, il nuovo tesoro del Medio Oriente


È stato inaugurato il più grande impianto termodinamico mai realizzato al mondo, Shams 1. Si tratta di un’installazione unica nel suo genere, che prevede un innovativo sistema per la produzione di energia elettrica: superfici paraboliche a specchio concentrano e focalizzano la luce solare, riscaldando alcune vasche opportunamente predisposte per lo scambio di energia sotto forma di calore. Si produce, in questo modo, vapore acqueo a elevata pressione, che opportunamente convogliato nei collettori termici dell’impianto consente di mettere in moto le turbine che attivano a loro volta un generatore elettrico, proprio come avviene in un impianto convenzionale a combustibili fossili.



I lavori per questa centrale solare di nuova concezione, che ha un’estensione di circa 2,5 chilometri quadrati (285 campi da calcio) ed è in grado di erogare oltre 100 MegaWatt di potenza, sono iniziati nel terzo quadrimestre del 2010, nei pressi di Madinat Zayed a circa 120 chilometri a sud-ovest di Abu Dhabi.



Il passo fondamentale che ha consentito di realizzare il progetto è stato l’impiego di tecnologie all’avanguardia del settore, fornite dalle diverse parti coinvolte. Di proprietà del Masdar Institute – società impegnata nello sviluppo di energie rinnovabili di proprietà degli Emirati Arabi Uniti – insieme alla francese Total e alla spagnola Abengoa Solar, rappresenta il primo importante passo verso la produzione di energia solare a costi contenuti e a basso impatto ambientale.



Oltre 258 mila parabole fotoassorbenti convogliano l’energia solare in più di 27 mila unità collettrici, assicurando – si stima almeno per i prossimi 25 anni – l’energia necessaria per le esigenze di circa 20 mila abitazioni e risparmiando ogni anno all’atmosfera circa 175 mila tonnellate di anidride carbonica (l’equivalente di quanto rilasciato da 30 mila automobili su strada).



Le parabole dell’impianto (eliostati) riflettono l’energia luminosa verso tubi di assorbimento, all’interno dei quali scorre un fluido che fornisce energia alle vasche con i liquidi di raffreddamento. Il sistema è completato da torri di raggruppamento dell’energia prodotta, ognuna delle quali è circondata da diverse migliaia di eliostati.



Un ulteriore aspetto innovativo è rappresentato dal fatto che l’impianto è in grado di continuare a produrre elettricità anche dopo il tramonto. In assenza di luce, infatti, la temperatura del fluido termovettore che immagazzina l’energia termica viene mantenuta stabile grazie all’impiego di un sistema termostatico a gas naturale, che garantisce la continuità nell’erogazione dell’energia.



Le valutazioni di Adnan Amin, segretario generale dell'Irena (International Renewable Energy Agency, Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili), hanno evidenziato la visionaria strategia di transizione energetica del progetto, facilmente esportabile in altre zone con caratteristiche geografiche analoghe a quelle degli Emirati arabi uniti. La stessa compagnia ha recentemente avviato la realizzazione di nuovo impianto in Mauritania con caratteristiche progettuali simili a quelle di Shams 1.



IL CLIMA


FONTE: http://www.legambiente.it/




È l'insieme delle condizioni atmosferiche medie in una determinata zona geografica ottenute da rilevazioni omogenee di dati presi per lunghi periodi di tempo. Non va confuso con ‘tempo meteorologico’, risultante, per sua natura variabile, di fattori riferiti a un’area specifica e a un preciso intervallo temporale. Il clima si definisce invece sulla base di elementi atmosferici, riferiti ad aree molto vaste, che tendono a ripetersi con regolarità nel tempo. L’Organizzazione mondiale della meteorologia (Wmo) ha stabilito che la durata minima delle serie temporali di dati continui per individuare le caratteristiche climatiche di una località è di trenta anni.



Gli elementi climatici sono fenomeni fisici misurabili, fra cui la temperatura, l’umidità, le precipitazioni e così via. I fattori climatici sono a loro volta le condizioni che producono variazioni sugli elementi climatici. Il motore del sistema climatico è il Sole, che riscalda la superficie terrestre con intensità variabile, causando un gradiente termico fra i poli e l’equatore. Il ripristino dell’equilibrio termico è affidato alla circolazione generale dell’atmosfera. Quello climatico è un sistema in equilibrio dinamico con le sue forzanti esterne, il Sole appunto, e interne, quali i cicli oceanici e la concentrazione di gas serra, che modifica il suo stato al variare dell’intensità delle forzanti stesse.



L'IPCC (International Panel for Climate Change), fondato dall'UNEP nel 1988, ebbe l'incarico di valutare in maniera indipendente ed obiettiva la situazione e l'evolversi del clima mondiale. Per far ciò, furono chiamati oltre 2000 luminari da oltre 160 Paesi, che hanno elaborato finora tre rapporti dettagliati sullo stato del pianeta, considerati come il miglior riferimento scientifico internazionale.



Già a partire dal suo primo rapporto, nel 1990, l'IPCC identificò la CO2 tra i gas responsabili dell'effetto serra ed indicò l'attività umana come una delle cause responsabili di tale anomalia. Tale posizione si è evoluta negli anni con l'aumentare sia dei dati a disposizione, sia dell'accuratezza dei modelli matematici utilizzati,



Nel suo ultimo rapporto (2007) l’IPCC ha affermato che le attuali concentrazioni di gas climalteranti nell’atmosfera stanno aumentando a un ritmo senza precedenti e che la maggior parte degli aumenti nella media delle temperature globali è molto probabilmente dovuta all’aumento osservato della concentrazione di gas serra causato dall’attività umana. Attività che stanno significativamente influenzando gli ecosistemi e causando mutamenti nella superficie terrestre, negli oceani, nel ciclo idrico, nella biodiversità, e che sono al di là della variabilità di tipo naturale. Se la temperatura continuerà ad aumentare potremmo arrivare ad un punto critico oltre il quale non sarà più possibile gestire la vita sul pianeta.



In assenza di misure efficaci, tra le possibili previsioni per i prossimi decenni sembra inevitabile che:



•tempeste e inondazioni si abbatteranno con sempre maggior intensità sulle zone costiere del mondo intero provocando lo spostamento di milioni di persone;

•il riscaldamento del clima modificherà le zone forestali e le zone umide causando danni, a volte irreversibili, all’intero ecosistema;

•il riscaldamento globale provocherà l'innalzamento del livello dei mari mettendo a rischio le popolazioni costiere; le infiltrazioni di acqua salata a livello costiero dovute all'innalzamento del livello dei mari diminuiranno la qualità e disponibilità di acqua dolce e potabile;

•le condizioni climatiche, modificate dal caldo e dall’umido, potranno far insorgere nuove forme patologiche ed accelerare la propagazione di malattie infettive come la malaria e la febbre gialla; a causa delle pratiche agricole non sostenibili e della progressiva avanzata dei deserti,

•numerose aree del nostro pianeta diverranno improduttive ed inospitali a causa delle pratiche agricole non sostenibili e della progressiva avanzata del deserto.

Ciascuno di questi scenari comporterà conseguenze disastrose per il pianeta, conseguenze che potranno essere aggravate da fattori socio-economici e dall’impatto che movimenti di popolazione potranno esporre una vasta area del pianeta a stress ambientali come, ad esempio aumento di abitanti nelle zone costiere e riduzione delle risorse disponibili per persona (cibo, acqua).



martedì 21 maggio 2013

ACQUA E VITA

Una fonte sotterranea vecchia miliardi di anni

Cortesia J. Telling/Nature

Nelle profondità di una miniera canadese sgorga un flusso d'acqua che risale al Precambriano, vale a dire ad almeno 1,5 miliardi di anni fa. La composizione e le dimensioni dell'acquifero fanno pensare che possa sostenere forme di vita microbica rimasta isolata per tutto questo tempo. La somiglianza delle rocce che includono l'acqua con quelle presenti su Marte fa ipotizzare che, indipendentemente dalle condizioni presenti alla sua superficie, anche sul quel pianeta possano esistere analoghi acquiferi in cui potrebbero essersi sviluppate forme di vita 

Una straordinaria riserva d'acqua risalente al Precambriano - rimasta intrappolata in fratture delle antichissime rocce che formano la parte più arcaica e stabile di una grande formazione geologica nota come "scudo canadese" - è stata identificata da un gruppo di geologi delle università di Manchester, Lancaster e Toronto e della McMaster University a Hamilton, in Canada, che ne descrivono le caratteristiche in un articolo pubblicato su “Nature”.
L'età dell'acqua, che fuoriesce in una miniera dell'Ontario nei dintorni della cittadina di Timmins, a una profondità di 2,4 chilometri, è stata stabilita sulla base dell'analisi della composizione isotopica dei gas che vi sono disciolti.
La valutazione della composizione isotopica dello xeno disciolto nell'acqua ha infatti permesso di stabilire che il tempo di permanenza minimo dell'acqua nella riserva è di almeno 1,5 miliardi di anni, ma potrebbe essere anche molto superiore, tanto da arrivare a 2,64 miliardi di anni, ossia intorno al periodo di formazione del basamento cristallino precambriano.
Le bolle di gas che agitano l'acqua che fuoriesce nelle profondità della miniera canadese hanno una composizione che potrebbe alimentare forme di vita microbica. (Cortesia J. Telling/Nature)In particolare, le analisi hanno mostrato che l'acqua è ricca di idrogeno, metano e diversi gas nobili come elio, neon, argon e xeno, con proporzioni molto simili a quelle che si riscontrano in prossimità delle bocche idrotermali delle profondità dell'oceano, molte delle quali ospitano una ricca vita microscopica. Questi gas potrebbero fornire energia per microrganismi che non sono stati esposti al Sole per miliardi di anni.
Questa circostanza è di grande interesse non solo perché potrebbe preludere
alla scoperta di nuove forme di vita sulla Terra, ma anche - e forse soprattutto - perché le rocce che hanno intrappolato l'acqua in prossimità della miniera canadese sono estremamente simili a formazioni rocciose presenti sul Pianeta Rosso, che potrebbe quindi ospitare microrganismi sotterranei.
Finora, l'unica acqua di età paragonabile era stata trovata intrappolata sotto forma di minuscole bolle disperse all'interno di antiche rocce, in una condizione che rende impossibile il sostentamento di forme di vita. Ma le perforazioni della miniera canadese riversano dalla roccia quasi due litri di acqua al minuto, acqua che ha caratteristiche simili a quella, molto più giovane, che sgorga a una profondità di 2,8 chilometri in una miniera del bacino di Witwatersrand, in Sud Africa, e che sostiene la vita di microrganismi.
Con questa scoperta, afferma Greg Holland, primo firmatario dell'articolo, “abbiamo individuato un modo in cui i pianeti possono creare e mantenere un ambiente favorevole alla vita microbica per miliardi di anni. E questo a prescindere da quanto inospitale possa essere la superficie. Si apre quindi possibilità che esistano ambienti simili nel sottosuolo di Marte”.



FONTE http://www.lescienze.it

IL MARE

Con una superficie più che doppia rispetto alle terre emerse (310 milioni di chilometri quadrati, otto volte quella della Luna!) il mare è un vero e proprio mondo nascosto agli occhi degli uomini.


Quattro quinti della flora e della fauna del mondo intero vivono nei mari costieri poco profondi che limitano i continenti e solo con cifre di smisurata grandezza si può definire la densità di popolazione di queste acque.

Una piccolissima parte di questa vita è qui rappresentata, pesci, poriferi, conchiglie, coralli e alghe dove la natura sembra aver giocato con le forme e i colori per stupire ogni volta noi uomini, ultimi arrivati a scoprire questo fantastico pianeta blu.

FONTE:  http://www.isegretidelmare.it

sabato 18 maggio 2013

Nomadi (playlist)

Il più grande “sasso” del pianeta | Effetto Terra

Il più grande “sasso” del pianeta


Il monolite messicano. E' il più grande al mondo
Si innalza per 433 metri sopra l’area circostante, nel Bernal Natural Monument dello stato di Queretaro in Messico. Si tratta del più grande masso, o in termini geologici, monolite presente sul nostro pianeta. Se vogliamo essere molto semplici, e me ne perdonino i geologi, si tratta del più grande sasso presente sulla Terra. Il monolite è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 2009. Fino ad oggi però rimaneva un mistero la sua formazione, ma ora una nuova ricerca dell’Università Nazionale Autonoma del Messico ha svelato alcuni enigmi geologici.
E’ una roccia magmatica
Al di là dell’aver determinato con estrema certezza la sua altezza, che è di 433 m e quindi supera quello che fino ad alcuni anni fa era considerato il monolite più alto, quello di Gibilterra (426 m), la ricerca ha determinato anche la sua composizione, si tratta di una roccia magmatica chiamata “dacite”, composta per il 67% da silice, un elemento particolarmente resistente agli eventi meteorologici e ciò spiega come il masso abbia resistito nel tempo rispetto alle rocce circostanti. Lo si può considerare un “sasso” perché il magma che ne diede forma produsse un “nocciolo” che venne spinto fino alla superficie terrestre dove è rimasto isolato da tutto il resto. Rispetto alle altre rocce è come un corpo estraneo. Il corpo magmatico si è formato in seguito allo scontro delle zolle presenti nell’area messicana.
Ma quando il monolite apparve sulla Terra? Circa 8,7 milioni di anni fa, dicono i ricercatori che hanno pubblicato lo studio sulla rivista Geology, ben più giovane dei 34 milioni di anni che studi precedenti lo avevano datato.

oltre l'Universo conosciuto

E se la vita extraterrestre fosse
dove non la stiamo cercando?

Secondo una ricercatrice americana, la gamma di esopianeti abitabili che potrebbero ospitare condizioni favorevoli alla vita sarebbe ben più ampia di quanto ipotizzato

di Marc Kaufman
astronomia
Una riproduzione artistica della stella Gliese e dei quattro pianeti del suo sistema planetario che potrebbero ospitare la vita. Illustrazione di Dana Berry, National Geographic
I ricercatori, negli ultimi decenni, hanno scoperto che la nostra Via Lattea, così come miliardi di altre galassie, è piena zeppa di pianeti extrasolari. La questione molto complessa e dibattuta che rimane da chiarire è se qualcuno di loro può effettivamente ospitare la vita.

Gran parte degli scienziati ritiene che la ricerca di pianeti potenzialmente abitabili debba concentrarsi su pianeti rocciosi che orbitano in una zona ben precisa attorno alla stella madre. Condizioni, queste, che consentirebbero la presenza di acqua allo stato liquido in superficie.

Ma in un provocatorio articolo di commento pubblicato questa settimana sulla rivista Science, il fisico teorico Sara Seager del Massachusetts Institute of Technology sostiene che le condizioni per l'abitabilità potrebbero essere più comuni di quanto generalmente pensato.

Seager, pioniera nello studio delle atmosfere dei pianeti extrasolari, dipinge un quadro diverso dal solito della tipologia di pianeti che potrebbero ospitare la vita. "La premessa di base è che, per essere abitabile, un pianeta debba avere acqua liquida", spiega in un'intervista. "I
pianeti con atmosfera sottile vengono riscaldati principalmente dalla propria stella. Ma ciò che più di ogni altra cosa regola la temperatura di superficie sono l'effetto serra, i tipi di gas presenti in atmosfera, e quanto pesante è l'atmosfera. Questo è quello che dobbiamo davvero capire".

Non il solito pianeta

Con queste coordinate in mente, Seager descrive come l'acqua e la vita potrebbero trovarsi anche su pianeti di grandi dimensioni orbitanti la propria stella madre a distanze dieci volte superiori rispetto alla distanza Terra-Sole se solo, per esempio, le atmosfere di questi pianeti contenessero abbastanza idrogeno gassoso.

L'idrogeno, spiega Seager, crea un effetto serra molto più potente di quello presente nella nostra atmosfera, e potrebbe quindi mantenere al caldo la superficie di un pianeta che riceve poche radiazioni dalla sua stella.

Anche pianeti relativamente secchi e più vicini ai propri Soli potrebbero essere abitabili, secondo Seager. Questi pianeti hanno infatti bisogno di meno acqua per creare temperature adatte alla vita sulla loro superficie dal momento che l'umidità atmosferica è il gas serra più efficace di tutti.

Seager ha descritto Venere come un esempio dinamico di instabilità: il pianeta, un tempo ricco d'acqua, è ora inabitabile a causa della troppa umidità che ha dato vita a un effetto serra fuori controllo. Un Venere più secco e più giovane, spiega, sarebbe potuto evolvere in un pianeta piuttosto abitabile.

Anche i pianeti che non orbitano attorno a nessuna stella - i tanti pianeti che fluttuano liberamente - potrebbero ospitare la vita, secondo Seager. Avrebbero però bisogno di calore generato dai processi radioattivi o da altri processi all'interno loro nuclei, nonché dei giusti gas per mantenere il calore nell'atmosfera. "Se c'è una lezione importante da imparare dagli esopianeti," scrive Seager su Science, "è che tutto è possibile nel rispetto delle leggi della fisica e della chimica".

La ricerca astronomica di pianeti extrasolari in questi ultimi anni è stata uno straordinario successo, e molti pianeti sono stati scoperti in quelle che vengono considerate le "classiche" zone abitabili.

Segni di vita

Il prossimo passo per i ricercatori è quello di imparare a identificare nelle atmosfere gli elementi e i composti che sono considerati una traccia della possibile presenza di vita. E questa è la specialità di Seager.

Sulla Terra, per esempio, la presenza di grandi quantità di ossigeno atmosferico è un segno sicuro della presenza di vita perché, in mancanza di un rifornimento costante, l'ossigeno legherebbe rapidamente con altri elementi e scomparirebbe. Nelle atmosfere degli esopianeti, altri composti come ozono e metano, specialmente in combinazione con l'ossigeno, possono essere considerati segni di possibile vita extraterrestre.

Secondo James Kasting, esperto di esopianeti della Pennsylvania State University, le opinioni di Seager sulle possibili diverse condizioni di abitabilità nei vari pianeti extrasolari sono simili a quelle di altri membri della comunità scientifica. La sfida e le difficoltà maggiori risiedono però nell'enfasi con la quale Seager indica questi pianeti come obiettivi per le future ricerche.

Gli sforzi, da parte della NASA, di lanciare un telescopio orbitante che riesca a rintracciare e analizzare le atmosfere degli esopianeti si sono infatti rivelati di difficile pianificazione - e spesso sono rimasti frustrati.

Un occhio nel cielo

Un precedente progetto di costruzione di uno strumento del genere, il Terrestrial Planet Finder (TPF), è stato abortito a causa dell'esorbitante prezzo previsto: più di 5 miliardi di dollari. "Il telescopio che speriamo un giorno verrà costruito deve essere progettato per cercare particolari tipi di pianeti", ha detto Kasting. "Molti di noi credono che un telescopio TPF a caccia di pianeti nelle più tradizionali zone abitabili abbia più possibilità di successo rispetto a un telescopio che cerchi esopianeti ricchi di idrogeno o con altre caratteristiche al di là di quelle che oggi compendiamo meglio".

Ma se una missione TPF è ancora un'ipotesi remota, la NASA ha recentemente approvato lo sviluppo di un altro satellite per la ricerca di esopianeti chiamato Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS), il cui lancio è previsto per il 2017. TESS cercherà pianeti extrasolari nei dintorni di 500.000 stelle fredde e piccole (di classe spettrale M) relativamente vicine al nostro sistema solare. Per confronto, il telescopio spaziale Keplero è oggi alla ricerca di esopianeti in una regione contenente 150.000 stelle a centinaia di anni luce di distanza.

Da solo TESS non sarà in grado di fornire informazioni significative sulle atmosfere degli espopianeti. Ma potrà farlo in collaborazione con il James Webb Space Telescope - "se siamo fortunati", ha aggiunto Seager. Il lancio del telescopio spaziale James Webb è in programma per il 2018.

Seager conclude il suo articolo scrivendo che, nonostante gli ostacoli, "il campo della ricerca e della caratterizzazione di esopianeti è sulla buona strada per capire appieno le condizioni di abitabilità e per trovare mondi abitabili".

Questo non significa necessariamente che la vita extraterrestre esista, o che qualsiasi possibile osservazione futura porterà con sé alcuna nuova certezza, ha detto. Ma almeno stiamo imparando sempre meglio a guardarci intorno.
(14 maggio 2013) fonte  :http://www.nationalgeographic.it

lunedì 13 maggio 2013

TUTTO INIZIO COL BING BANG

All'origine dell'universo: il Big Bang Come nacque l'Universo? Da secoli ormai i fisici si pongono questa domanda, ma solo negli ultimi tempi sono riusciti a fornire per essa una risposta soddisfacente. Nonostante alcuni restino ancora scettici, tutto sembra convergere verso l'ipotesi che il cosmo sia nato in seguito ad una immensa esplosione di energia chiamata Big Bang ("grande scoppio"), che risalirebbe a 13,7 miliardi di anni fa. Le nostre conoscenze su quell'esplosione primordiale non riescono però a risalire fino all'istante "zero", bensì fino ad un istante successivo detto "tempo di Planck", 10-43 secondi dopo il Big Bang. All'istante zero infatti l'universo primitivo è completamente inaccessibile per la nostra fisica, perché tutta la materia e l'energia che lo componevano erano così concentrate da costituire una "singolarità": uno stato estremo non indagabile della fisica che conosciamo. Ed anche per sapere cosa successe prima del tempo di Planck sarebbe necessaria una teoria quantistica della gravitazione, che invece finora nessuno è riuscito ad elaborare (c'è ancora un premio Nobel che aspetta...).
Al tempo di Planck, invece, l'Universo era caldissimo (addirittura 1032 gradi) ed aveva una dimensione di soli 10-33 cm. Successivamente si formarono le prime particelle, i quark, dai quali nacquero poi neutroni e protoni, con le relative antiparticelle. Materia ed antimateria infatti sono state presenti nell'Universo primigenio in quantità equivalenti. Dopo 10-23 secondi, l'Universo era ancora piccolissimo, delle dimensioni di un protone. Da questo momento fino a 10-26 secondi dopo il Big Bang, protoni e antiprotoni si annichilarono, cioè si scontrarono trasformando le intere loro masse in energia secondo la celeberrima equazione di Einstein E = m c2, dove c è la velocità della luce nel vuoto. In seguito comparvero elettroni ed antielettroni, che si annichilarono anch'essi.
Queste annichilazioni produssero enormi quantità di energia, sotto forma di radiazione elettromagnetica. L'Universo era dominato dalla radiazione e perciò questo periodo prende il nome di "era radiativa"
Ad 1 minuto di età si formarono i primi nuclei atomici di deuterio, elio e litio: la temperatura dell'Universo era scesa sotto i 10 miliardi di gradi, così i protoni e i neutroni rimasti cominciarono ad urtarsi con violenza minore ed a dar luogo alle prime reazioni di fusione nucleare. Dopo qualche migliaio di anni, l'Universo non era più dominato dalla radiazione, ma dalla materia; questa era però ancora immersa in una radiazione molto intensa ed energetica. La temperatura era ancora molto alta, quindi materia ed energia erano accoppiate, cioè si trasformavano continuamente l'una nell'altra. Si dovette attendere fino a 300 mila anni dopo il Big Bang perché la temperatura scendesse ancora ed esse si disaccoppiassero: da quel momento l'Universo diventò trasparente alla radiazione. Nel frattempo gli elettroni si unirono ai nuclei per formare gli atomi.
La galassia M31 in Andromeda (foto NASA)Dopo qualche centinaio di milioni di anni, la temperatura era scesa sotto i 4000 gradi; gli elettroni si combinarono con i nuclei: la materia divenne in gran parte elettricamente neutra e la sua interazione con la radiazione diventò molto meno frequente. La materia poté quindi cominciare ad aggregarsi ed in seguito si formarono le prime protogalassie: gigantesche nubi di gas freddissimo (-220°C) che, per collasso gravitazionale, nel miliardo di anni successivo diedero origine alle galassie. Tra queste vi era la Via Lattea (dal greco galactos, "latte", poiché i Greci la spiegavano come una poppata di latte scappata dalle labbra di Zeus appena nato): un'immensa spirale del diametro di 100.000 anni luce, il cui spessore massimo misura circa 16.000 anni luce, e formata da almeno 100 miliardi di stelle. Essa è l'enorme sistema di stelle di cui la Terra fa parte: un vero e proprio "universo-isola"! Dopo circa 2 o 3 miliardi di anni dal Big Bang le galassie cominciarono a riunirsi in ammassi, e a 4 miliardi di anni sembra si siano formate le prime stelle. L'Universo nel frattempo si era espanso e raffreddato e la radiazione era diventata molto meno energetica, cioè si era spostata su lunghezze d'onda maggiori: ciò dipende dal fatto che l'energia E della radiazione è legata alla sua frequenza f dalla formula E = h f, dove h è la costante di Planck (pari a 6,626 x 10-34 J s, e che la lunghezza d'onda è inversamente proporzionale alla frequenza (il loro prodotto dà la velocità dell'onda): al crescere della lunghezza d'onda decresce dunque la frequenza, e con essa l'energia.
Energia invisibile ed interruzione della formazione stellare
Assolutamente misteriose restano invece, almeno per ora, l'origine e la natura della fantomatica energia oscura che riempirebbe tutto quanto l'universo, come l'etere della fisica pre-einsteiniana. Questa entità pressoché metafisica venne introdotta solo nel 1998 dal cosmologo Michael Turner, per spiegare come mai le galassie stanno accelerando allontanandosi l'una dall'altra, anziché rallentare a causa della reciproca attrazione gravitazionale, come tutti ci saremmo aspettati. La prima intuizione della sua esistenza la aveva avuta però Albert Einstein, introducendo nelle sue equazioni una « costante cosmologica » per contrastare gli effetti della gravità e far sì che l'universo fosse stazionario ed eterno, teoria questa assai in voga prima della scoperta del Big Bang e dell'espansione delle galassie. Nel 2010 l'operazione Cosmos (Cosmological Evolution Survey) ha provato definitivamente la sua esistenza attraverso un imponente programma di osservazione durato mille ore ed effettuato dall'Advanced Camera for Survey del telescopio spaziale Hubble, che ha avuto come obiettivi ben 446 mila galassie. Gli astronomi infatti hanno infatti calcolato che il 74 % dell'universo è composto da energia oscura, al quale si aggiunge un 22 % di materia oscura (e di entrambe si ignora la natura). Il rimanente 4 % è costituito dalla materia e dall'energia visibili; noi quindi viviamo in un universo in larga invisibile. Se la materia oscura contribuisce con una maggiore gravità su una piccola scala cosmica, l'energia oscura fa invece misteriosamente sentire il suo effetto su una scala maggiore. Proprio cercando questi effetti è stata raccolta la prova dell'esistenza dell'energia oscura nella distorsione dell'immagine delle galassie lontane generata dal cosiddetto effetto di "lente gravitazionale", cioè la distorsione delle immagini di oggetti remoti dovuti alla curvatura dei raggi di luce a causa della gravità di oggetti assai massicci. Oggi che l'energia oscura è dunque stato accertato, ma cosa sia resta per ora un enigma, e ce lo potranno dire solo le ricerche future.
Non possiamo a questo punto non citare un catastrofico evento responsabile dell'interruzione della nascita delle stelle in una galassia dell'universo primordiale: lo hanno identificato i ricercatori del dipartimento di Fisica della Durham University che grazie al Near-Infrared Integral Field Spectrometer (NIFS) del Gemini Observatory hanno osservato la galassia massiccia SMM J1237+6203 come appariva appena tre miliardi di anni dopo il Big Bang, quando l'universo aveva un quarto della sua età attuale. Le caratteristiche osservate già da tempo nelle stelle massicce intorno alla Via Lattea portavano a ritenere che un evento improvviso potrebbe aver interrotto la formazione stellare nelle galassie primordiali, arrestandone l'espansione. Gli astrofisici hanno ipotizzato che ciò sia stato dovuto a un'emissione di energia in grado di disgregare le galassie e di impedire l'ulteriore formazione stellare, una serie di esplosioni miliardi di volte più potenti di qualunque bomba atomica con una frequenza e una durata inimmaginabili, avvenute ininterrottamente per milioni di anni. Esse diffusero il gas necessario per formare nuove stelle, consentendogli di sfuggire all'attrazione gravitazionale della galassia, e di fatto regolandone la crescita. Secondo gli astrofisici, l'inimmaginabile fonte di energia necessaria sarebbe derivata dalla proiezione verso l'esterno di materiali accelerati dal buco nero presente nella galassia. « In effetti, le osservazioni mostrano la galassia mentre sta "regolando" la propria crescita impedendo la nascita di nuove stelle », ha dichiarato Dave Alexander, che ha partecipato alla ricerca: « Credo che simili emissioni abbiano proiettato nello spazio i materiali necessari alla formazione stellare », di fatto preparando il terreno ideale alla nascita dei sistemi planetari come quello del nostro Sole.
Nella foto sottostante è possibile vedere un'incredibile istantanea del giovane universo quando aveva appena 379.000 anni, cioè oltre 13 miliardi di anni fa, scattata satellite Planck Surveyor dell’ESA (l'Ente Spaziale Europeo), lanciato il 14 maggio 2009, che ha misurato le anisotropie di ciò che rimane della radiazione fossile dovuta al Big Bang, ovvero la radiazione cosmica di fondo. Forse quelle che vediamo in questa strabiliante immagine sono i semi delle nostre galassie...
L'universo neonato ripreso dal satellite Planck!
Lo sviluppo del sistema solare
Il cosmo aveva cominciato ad assumere l'aspetto con il quale oggi lo conosciamo, e tutto era pronto per la nascita del Sistema Solare. La sua origine, anche se i pareri sono discordi, andrebbe collocata tra i 5 e 4,5 miliardi di anni fa; dunque quando l'Anno della Terra non era ancora cominciato.
Il Sole, con tutti i corpi che gli ruotano attorno, costituisce un sistema di cui solo da pochi anni conosciamo altri esempi, ma nessuno di questi si trova alla portata della nostra osservazione diretta. Per questo motivo il problema sulla sua origine, l'evoluzione fino allo stato attuale e la previsione del suo futuro lontano è più complesso e più difficile di quello dell'evoluzione di una stella, in quanto è invece possibile osservare nella Galassia stelle in stadi evolutivi diversi da cui si sono formulate teorie basate su dati sperimentali.
Una teoria universalmente accettata da tutti gli studiosi per l'origine del Sistema Solare, purtroppo, oggigiorno non esiste ancora. Molti aspetti delle teorie più diffuse sono ancora in una fase di congettura, e devono ancora essere dimostrate sperimentalmente. Tuttavia la regolarità con cui molte caratteristiche si ripetono nel sistema solare, come il fatto che le orbite planetarie giacciono tutte sullo stesso piano, oppure il fatto che, escludendo Venere ed Urano, tutti i pianeti hanno un moto di rotazione e rivoluzione nello stesso senso, hanno fatto ritenere già fin dal 1700 che tutti i corpi abbiano avuto la stessa origine. Ed ecco alcune delle ipotesi al riguardo.
1)  Teoria mareale
Nel 1745 Georges Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-1788), elaborò una teoria secondo la quale i pianeti si sarebbero formati dopo il passaggio di un corpo di grande massa che, transitando nei pressi del Sole, gli avrebbe strappato della massa, poi raccoltasi in una specie di filamento a forma di sigaro; spezzatosi in vari frammenti poi condensatisi, esso avrebbe dato vita ai pianeti ed ai satelliti.
2)  Teorie catastrofiche
In alternativa alla teoria nebulare, nel XIX secolo vennero elaborate le cosiddette teorie catastrofiche, secondo le quali il sistema solare si sarebbe formato successivamente all'origine del Sole dalla materia che quest'ultimo avrebbe espulso a seguito dell'impatto con una cometa o addirittura con un'altra stella (altro che Armageddon!)
Le teorie mareali e catastrofiche, tuttavia, non erano in grado di spiegare molte caratteristiche del sistema solare, ed erano legate all'aleatorietà di eventi disastrosi su larga scala, che oggi sappiamo essere rarissimi. L'idea che il cosmo evolva lentamente e senza grandi sbalzi diede invece vita alla:
3)  Teoria nebulare o di Kant-Laplace
L'ipotesi che tutto abbia avuto origine da una materia primordiale concentrata in una nebulosa di gas e polveri fu formulata per la prima volta da Cartesio (1596-1650) nel 1644, ma le prime teorie scientifiche che andavano in questo senso furono elaborate nel 1755 dal filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804). Secondo la teoria nebulare di Kant, il Sole ed il sistema solare si sarebbero formati a seguito della condensazione di una grande nube di gas in rotazione.
Nel 1797, indipendentemente dall'opera di Kant, Pierre Simon marchese di Laplace (1749-1827) spiegò l'origine del sistema solare ipotizzando che da una primitiva nebulosa dotata di un moto di rotazione si sarebbero staccati, per contrazione e raffreddamento, gli anelli esterni i quali successivamente avrebbero dato origine ai protopianeti; aggregandosi sotto l'effetto della gravità, essi avrebbero originato i pianeti. Allo stesso modo si sarebbero formati i satelliti, la cui origine sarebbe derivata dagli anelli staccatisi dalla superficie dei pianeti, o da protopianeti "sopravvissuti" (qualcuno dice che questa è anche l'origine della nostra Luna).
Mediante la teoria nebulare di Kant-Laplace si può spiegare anche l'esistenza della fascia di Kuiper (Kuiper belt). Ad una distanza di 10.000 unità astronomiche dal Sole (cioè ad una distanza 10.000 volte maggiore di quella tra il Sole e la Terra) si è formata infatti una nube costituita da corpi che non superano i 10 chilometri di diametro, formati per lo più da ghiaccio, neve e polveri, che saltuariamente attraversano il sistema solare dando vita all'apparizione delle comete. Sono questi i KBO o Kuiper Belt Objects (Oggetti della fascia di Kuiper), dal nome del loro scopritore Gerard Peter Kuiper (1905-1973): qualcuno li chiama "plutini" per via della loro lontananza dal Sole. I pianeti nani Plutone ed Eris sarebbero i più grandi tra questi oggetti, che si sarebbero formati con i resti della nebulosa dalla quale ebbe origine il sistema solare.
L'accettazione di una teoria o dell'altra prevede diversi modelli di universo. Secondo la teoria nebulare, infatti, la formazione di un sistema solare è la naturale conseguenza della formazione delle stelle, e quindi i sistemi solari sarebbero diffusi ovunque, non solo nella nostra Galassia, ma in tutto l'Universo. L'incontro di due stelle è invece un evento raro ed occasionale, e la formazione di un sistema solare sarebbe raro se non addirittura unico nell'Universo. Le recenti osservazioni di sistemi solari in orbita attorno alle stelle vicine danno ragione alla teoria di Kant-Laplace, e questo modifica la nostra posizione nel cosmo. Noi infatti non esistiamo su di un pianeta nato in seguito ad un evento straordinario, ma su di un corpo come ce ne sarebbero moltissimi altri nell'infinità dei cieli; non solo non siamo dei privilegiati, dunque, ma potremmo anche non essere neppure soli. Questo però è un discorso che esula dalle ambizioni di questo ipertesto.
 
Formazione del Sistema Solare, disegno dell'autore
Formazione del Sistema Solare secondo la teoria nebulare, disegno dell'autore
 
I protopianeti
Ed ecco come gli astronomi moderni ritengono che siano andate le cose. La formazione del sistema solare sarebbe avvenuta per la condensazione, in un angolo remoto della nostra Galassia, di una nube composta in massima parte da gas, idrogeno ed elio ed in minima parte da grani solidi, ghiaccio, grafite, silicati e ferro.
A causa della rotazione la nube primordiale collassò con la conseguente formazione di un corpo centrale più denso circondato da gas la cui massa era circa 1/10 della massa totale. Con il collasso si formarono nuovi vortici che frantumarono la nube in più parti dotate di un proprio movimento di rotazione.
Uno di questi frammenti in rotazione, divenne il nucleo del nostro sistema solare che, per effetto della rotazione, iniziò ad appiattirsi, assumendo la forma di un disco.
A distanze crescenti da quest'embrione di stella, intanto, gli urti fra le particelle in caduta avevano prodotto degli addensamenti locali che agivano anch'essi da centri di attrazione per la materia circostante: sono i protopianeti, abbozzi informi dei pianeti.
Le condizioni fisiche della nube primordiale erano molto diverse procedendo dal nucleo verso l'esterno. Al centro vi erano le temperature e le pressioni più elevate e, richiamate dalla maggior forza di gravità, le particelle più grandi e pesanti. Verso la periferia, forza di gravità e temperatura decrescevano, il gas era più rarefatto, i grani solidi più piccoli e leggeri.
Il centro del disco divenne il punto di attrazione di particelle solide e gassose che provocarono il continuo aumento della temperatura e della pressione ed diedero origine al Sole. Nel centro di questa nube primordiale si accumulò infatti una quantità di materia densa e calda che ben presto superò i parametri critici per l'avvio della reazione nucleare di fusione dell'idrogeno in elio. I corpi che raggiungevano una certa massa iniziavano intanto ad attrarre i gas e le polveri contenute nella zona gassosa, accrescendosi sino allo stato attuale. La radiazione prodotta dal Sole nascente, a seguito dell'alta temperatura sviluppatasi per la contrazione gravitazionale, arrestò il processo di accrescimento dei pianeti eliminando il gas della nube residua.
Le alte temperature raggiunte nella zona gassosa più prossima al Sole sono state la causa della dispersione degli elementi più leggeri e volatili, come l'idrogeno e l'elio. Si poterono formare quindi protopianeti di massa minore e formati essenzialmente da elementi pesanti, come il ferro, caratterizzati da una massa minore ma con con maggiore densità. Ebbero così origine due famiglie nettamente distinte di pianeti.
a) pianeti terrestri. In ordine di distanza dal Sole, i primi quattro (Mercurio, Venere, Terra e Marte), privati degli elementi più volatili dalla radiazione solare, sono costituiti d'ammassi solidi ad alta intensità (4-5 grammi a centimetro cubo) e piccole dimensioni molto simili (raggi compresi tra 2500 e 6000 chilometri)
b) pianeti gioviani. I successivi quattro pianeti (Giove, Saturno, Urano e Nettuno), hanno potuto accrescersi utilizzando, oltre alle particelle solide più pesanti, abbondanti quantità di gas e ghiaccio per cui sono caratterizzati da bassa densità media e da grandi dimensioni. Per le loro caratteristiche sono detti giganti gassosi o di tipo gioviano. Hanno raggi che vanno dai 26.000 chilometri di Urano e Nettuno ai 60.000  di Saturno ed agli oltre 70.000 di Giove. Sono in gran parte fluidi, con densità nettamente minori di quelle dei pianeti terrestri. Tutti i pianeti gassosi sono circondati da anelli; solo quelli di Saturno, però, sono così splendenti da essere visibili chiaramente anche dalla Terra. Essi, infatti, sono quasi completamente costituiti da cristalli di ghiaccio d'acqua o ne sono ricoperti, per cui, la luce del Sole è in gran parte riflessa tanto da renderli visibili, nonostante il loro spessore non superi il chilometro.
A questo proposito vale la pena di citare una teoria recentissima, che vedrebbe Mercurio e Marte... separati alla nascita. Questa la conclusione a cui è giunta la simulazione di Brad Hansen della California University di Los Angeles presentata nel gennaio 2009 al meeting di Long Beach (California) dell'American Astronomical Society. Il tutto parte da un esame della fotografia dei quattro pianeti in fila, Mercurio, Venere, Terra e Marte, come ruotano intorno al Sole. Tutti i corpi planetari si formano da un anello di materia distribuito intorno alla stella. « La simulazione realizzata », ha spiegato Hansen, « dimostra che due pianeti maggiori di un anello di materia più vicino all'astro si sono formati agli estremi, cioè l'uno nel bordo interno e l'altro nel bordo esterno ». Questi sarebbero rappresentati da Venere e la Terra. Di mezzo c'era però altro materiale dal quale presero forma Mercurio e Marte, entrambi poi scacciati all'esterno dal gioco delle forze gravitazionali dei due corpi maggiori. E lì sono rimasti dove noi li vediamo. Gli altri pianeti maggiori, da Giove in poi, sarebbero scaturiti da un anello più esterno.
E non è tutto. Minuscole variazioni nella composizione isotopica dell'argento nei meteoriti e nelle rocce terrestri hanno permesso a Richard Carlson, del Dipartimento di magnetismo terrestre della Carnegie Institution for Science di Washington, di elaborare la sequenza temporale di come il nostro pianeta si formò esattamente 4,568 miliardi di anni fa. Il nuovo studio, pubblicato sulla rivista Science, indicherebbe che l'acqua e altre sostanze volatili cruciali possono essere state presenti in almeno alcuni dei "mattoni elementari" del nostro pianeta, anziché essere arrivate successivamente con le comete. Infatti, in confronto al resto del sistema solare, la Terra è povera di elementi volatili come idrogeno, carbonio e azoto, che sono concentrati con maggiore probabilità nella parte più interna e ad alta temperatura del sistema solare. Il nostro pianeta è povero anche di elementi moderatamente volatili, come l'argento. « Il grande interrogativo sulla formazione della Terra è quando sia avvenuto questo impoverimento », ha spiegato Carlson. L'argento ha due isotopi stabili, uno dei quali, l'argento 107, fu prodotto nel sistema solare primordiale dal rapido decadimento del palladio 107. Quest'ultimo è così instabile che è praticamente decaduto tutto entro i primi 30 milioni di anni della storia del sistema solare. Ora, argento e palladio differiscono nelle loro proprietà chimiche: l'argento è più volatile, mentre il palladio si lega al ferro con maggiore probabilità. Queste differenze hanno permesso al ricercatore della Carnegie Institution di usare i rapporti isotopici nei meteoriti e nelle rocce del mantello terrestre per determinare la storia degli elementi volatili del nostro pianeta in rapporto alla formazione del suo nucleo ferroso. Gli isotopi dell'afnio e del tungsteno secondo Carlson indicano che il nucleo si è formato tra 30 e 100 milioni di anni dopo l'origine del sistema solare, mentre gli isotopi dell'argento suggeriscono che il nucleo della Terra ha avuto origine tra 5 e 10 milioni di anni dopo la nascita del sistema solare.
Queste osservazioni contraddittorie possono essere conciliate solo ipotizzando che il processo di accrezione della Terra sia cominciato con materiali privi di elementi volatili, fino a raggiungere l'85 % della sua massa finale; essi sono poi stati acquisiti nei successivi stadi di formazione, circa 26 milioni di anni dopo l'origine del sistema solare, probabilmente nel corso di un unico evento, forse la gigantesca collisione tra la proto-Terra e un oggetto delle dimensioni di Marte che, come diremo sotto, potrebbe aver originato la Luna. Questo modello è stato battezzato "accrezione eterogenea", perché i componenti elementari della Terra cambiarono di composizione via via che il pianeta si formava.
Infine, un'ipotesi avanzata nel 2012 da Diego Turrini e Gianfranco Magni riprendendo una precedente idea di Angioletta Coradini, recentemente scomparsa. Secondo loro, se non ci fosse Giove, forse non ci sarebbe neppure la Terra. Infatti, prima che Giove si formasse, il disco di gas e polveri che orbitava attorno al giovane Sole era composto principalmente da asteroidi di piccola taglia. La nascita di Giove destabilizzò la nebulosa, introducendo forti perturbazioni capaci di disperdere gli oggetti vicini, dei quali una parte finì nel sistema solare interno. Le comete cominciarono a popolare zone più vicine al Sole, fornendo ingredienti fondamentali come l'acqua ed altri elementi volatili, indispensabili per formare pianeti dotati di atmosfera, Terra compresa. Alla nascita di Giove poi seguì il primo violento bombardamento meteoritico dei giovani pianeti (chiamato JEB, "Jovian Early Bombardment"), che impedì la formazione di un vero pianeta nella fascia degli asteroidi e modellò l'aspetto dei pianeti di tipo terrestre. È proprio il caso di dire: grazie, Giove!
Le sorelle perdute del Sole
E ora, un accenno a un'ipotesi rivoluzionaria proposta in tempi recenti. La notte è buia perché, parlando in termini cosmici, il Sole e la sua famiglia di pianeti sono molto solitari. Le stelle vicine sono tanto distanti da apparirci come minuscoli puntini luminosi, e quelle più lontane appaiono confuse in una debole luminescenza. Anche le sonde spaziali più veloci impiegherebbero decine di migliaia di anni per coprire la distanza che ci separa dalla stella più prossima: come ha detto uno scienziato, lo spazio ci isola così come un oceano che circonda un atollo.
L'ammasso delle Pleiadi, posto a circa 425 anni luce dalla Terra nella costellazione del ToroMa non tutte le stelle sono così isolate. Circa una su dieci fa parte di un ammasso, ovvero di un raggruppamento di centinaia o migliaia di stelle del diametro di alcuni anni luce. La grande maggioranza delle stelle nasce in aggregati di questo tipo, che però nel passare dei miliardi di anni si disperdono, mescolando le proprie componenti nell'immensità della galassia.
Orbene, è possibile che anche il nostro Sole abbia avuto origine in un ammasso stellare? Se questo fosse vero, la nostra posizione nella galassia non sarebbe sempre stata cosi desolata; lo sarebbe diventata solo a causa della graduale dispersione nel tempo dell'ammasso originario. Un insieme sempre più massiccio di dati suggerisce proprio questo: un tempo il Sole era ritenuto un figlio unico, ma oggi molti astronomi sono convinti che appartenesse invece ad una famiglia assai numerosa, formata da migliaia di sorelle nate tutte più o meno nello stesso momento. Se fossimo vissuti ai primordi del sistema solare, lo spazio circostante la Terra bambina ci sarebbe apparso tutt'altro che vuoto: il cielo notturno sarebbe stato pieno di stelle brillanti, molte con una luminosità almeno paragonabile a quella della Luna piena, tanto da permetterci di leggere. Alcune di esse dovevano essere addirittura visibili anche di giorno!
Raccogliendo tutti i dati disponibili, Simon F. Portegies Zwart, professore di astrofisica computazionale presso l'osservatorio dell'Università di Leida, nei Paesi Bassi, ha cercato di ricostruire quale fosse la configurazione dell'ammasso in cui probabilmente nacque il Sole, che si è ormai dissolto da lungo tempo. Gli indizi più convincenti dell'esistenza di "sorelle" del Sole sono stati scoperti nel 2003, quando Shogo Tachibana dell'Università di Tokyo e Gary R. Huss dell'Università delle Hawaii a Manoa hanno analizzato due meteoriti antichissimi, ritenuti testimonianze quasi inalterate dell'epoca in cui si formò il Sistema Solare. I due scienziato hanno rilevato la presenza in essi di nichel 60, un prodotto del decadimento radioattivo del ferro 60, in composti che normalmente dovrebbero contenere ferro. Sembra quindi che nei meteoriti sia avvenuta una serie di trasformazioni in cui il ferro originariamente presente nei composti fu sostituito dal nichel. Il ferro 60 deve essere stato sintetizzato, portato nel sistema solare e incorporato nei meteoriti nel corso di un intervallo di tempo inferiore al suo periodo di dimezzamento, pari a 2,6 milioni di anni: un batter d'occhio, in termini cosmici. Quindi la sorgente del ferro doveva essere molto vicina: la candidata più probabile e un'esplosione di una supernova distante meno di 5 anni luce quando il Sole aveva un'età di appena 1,8 milioni di anni. Se a quell'epoca il Sole fosse stato isolato come lo è oggi, la coincidenza sarebbe davvero sorprendente: secondo voi è credibile che una stella massiccia sia esplosa proprio mentre passava nei pressi del Sole? Non sono mai avvenute altre esplosioni di supernova a distanza tanto ravvicinata, altrimenti la vita sulla Terra sarebbe stata annientata. Una spiegazione molto più plausibile e che il Sole neonato e la stella esplosa facessero parte entrambe di un ammasso: in una situazione in cui le stelle nascenti sono densamente raggruppate, una supernova vicina appare un evento meno improbabile.
Altre prove fanno pensare che il Sole sia nato in un ammasso. L'abbondanza di elementi pesanti nel Sole e più elevate di quarto indicherebbe la sua posizione nella galassia; questo dato fa pensare a un arricchimento provocato dai resti di una supernova vicina. Inoltre Urano e Nettuno sono molto più piccoli di Giove e Saturno. Una possibile spiegazione di questo fatto è che la radiazione di una stella vicina abbia vaporizzato i loro strati esterni, mentre i pianeti più vicini al Sole avrebbero evitato questa sorte perché erano più riparati dal gas interplanetario residuo.
« Le stelle di un ammasso attraversano un ampio intervallo di masse », ha dichiarato Zwart: « quelle pesantissime sono poche, mentre quelle leggere sono più numerose. Per ogni incremento di massa di un fattore 10, l'abbondanza delle stelle si riduce circa di un fattore 20. Quindi, per ogni stella di 15-25 masse solari - la taglia di quella che si ritiene sia esplosa vicino al giovane Sole - un ammasso ne contiene circa 1500 più piccole. Questo numero indica la massa minima dell'ammasso in cui e nato il nostro astro diurno. Le mie simulazioni indicano che probabilmente l'ammasso conteneva poco meno di 3500 stelle. Una stella di 15-25 masse solari vive tra 6 e 12 milioni di anni prima di esplodere come supernova. Dunque, tra la formazione di questa stella e la nascita del Sole deve essere trascorso lo stesso intervallo di tempo. A partire da questi dati, ho stimato le dimensioni dell'ammasso, che doveva avere un diametro inferiore a 10 anni luce. » Le stelle dovevano essere dunque davvero vicinissime le une alle altre! Altro che romantico e oscuro cielo notturno!
C'è però un'obiezione importante a questa teoria. Secondo molti astrofisici, prima che l'ammasso si disperdesse le stelle erano tanto vicine tra loro che una di esse avrebbe potuto facilmente attraversare il sistema solare. Un incontro ravvicinato del genere avrebbe sconvolto le orbite di pianeti, comete e asteroidi, che, da circolari e complanari, sarebbero diventate fortemente ellittiche e inclinate. Una possibile contro-obiezione è la seguente: alcune comete distanti più di 50 Unità Astronomiche dal Sole, poste quindi l'orbita di Plutone, hanno orbite motto allungate. La dinamica interna del sistema solare non sembra in grado di giustificare queste orbite peculiari, dato che questi corpi sono al di fuori anche dall'influenza gravitazionale di Giove. La spiegazione più probabile è che siano stati perturbati da una stella "sorella" del Sole transitata a circa 1000 Unità Astronomiche. I pianeti, viceversa, hanno orbite molto regolari, e questo indica che nessun "visitatore stellare" è mai passato a meno di 100 Unità Astronomiche dal Sole.
E non è tutto: secondo Hal Levison e David Kaufmann del Southwest Research Institute (SwRI) di Boulder, in Colorado, insieme con i colleghi Martin Duncan della Queen's University di Kingston, in Canada, e con Ramon Brasser dell'Observatoire de la Côte d'Azur, in Francia, la maggior parte delle comete, incluse le famose Halley, Hale-Bopp e la più recente McNaught, potrebbero essersi originate addirittura attorno ad altre stelle! I ricercatori hanno utilizzato simulazioni al computer per mostrare come il Sole potrebbe avere catturato piccoli corpi ghiacciati dalle loro stelle originarie quando ancora faceva parte di un ammasso di stelle neonate, creandosi così un disco da cui successivamente si formarono i pianeti. Il Sole catturò gravitazionalmente una vasta nube di comete quando l'ammasso si disperse; tale nube prende il nome di nube di Oort da Jan Hendrik Oort (1900-1992) che ne postulò l'esistenza nel 1950. "Il processo di cattura è stato sorprendentemente efficiente, e porta all'eccitante possibilità che la nube contenga un marasma di materiali provenienti da un gran numero di gemelli del Sole", ha sottolineato Duncan. "Se si assume che il disco protoplanetario del Sole osservabile può essere usato per stimare la popolazione indigena della nube di Oort, possiamo concludere che più del 90 % delle comete osservate ha un'origine extrasolare". La formazione della nube di Oort è stato un mistero per oltre 60 anni, e il nuovo lavoro risolve probabilmente questo difficile problema.
Recenti analisi isotopiche del meteorite Allende, il più grande meteorite di condrite carbonacea, caduto nel 1969 nello stato messicano di Chihuahua, portano acqua al mulino di quest'ipotesi. Le condriti carbonacee sono tra gli oggetti più antichi di tutto il sistema solare, si sono formate molto lontano dal Sole e in seguito hanno guadagnato una posizione assai più ravvicinata ad esso. Le loro inclusioni ricche di alluminio e calcio, che hanno un diametro compreso tra il millimetro e il centimetro, si sono formate con tutta probabilità in una fase primordiale dell'evoluzione del sistema solare: poiché risalgono a 4,57 miliardi di anni fa, sono più vecchie dei pianeti, che si formarono invece dai 10 ai 50 milioni di anni dopo. Si ritiene che, entrando in contatto con il gas nebulare o in forma di condensati solidi o di goccioline fuse, si siano poi arricchite dei più leggeri isotopi dell'ossigeno, registrando così la composizione di ossigeno del gas nebulare solare in cui si sono sviluppate. I nuovi risultati delle misure isotopiche ad alta precisione condotte dal Lawrence Livermore National Laboratory, dal Johnson Space Center della NASA e dall'Università della California a Berkeley portano a ipotizzare che le condriti si siano formate da differenti riserve di ossigeno, probabilmente localizzate in distinte regioni della nebulosa solare.
Insomma, anche se oggi il Sistema Solare ci appare piuttosto solitario nel Braccio di Orione della Via Lattea, probabilmente in passato non è sempre stato così. Le stelle che un tempo erano compresse in una sfera del raggio di 10 anni luce (oggi ce ne sono solo 11, allora qualche migliaio!), a causa della rotazione su se stessa della Galassia, oggi si sarebbero disperse su un arco di decine di migliaia di anni luce. Se tutto ciò è corretto, individuare tramite osservazioni telescopiche le « sorelle perdute del Sole » sarà quanto mai importante, perchè esse sono le naturali candidate ad ospitare pianeti abitabili, e forse sui quali si è sviluppato il miracolo della vita.
La Luna durante una spettacolare eclisse che la tinge di rossoLa madre della Luna
Sull'origine della Luna sono in corso grandi controversie. Anche in questo caso si contrappongono varie scuole di pensiero:
a) secondo i sostenitori delle teorie catastrofiche, la Luna sarebbe nata dall'impatto devastante tra la Terra ed un protopianeta avente più o meno le dimensioni di Marte, chiamato Teia (nome della madre della Luna nella mitologia greca); alcuni frammenti sarebbero stati proiettati nello spazio dove, secondo le simulazioni al computer, si condensarono in due satelliti: uno, troppo vicino alla Terra, gli sarebbe ricaduto addosso, ma l'altro avrebbe iniziato a ruotare su se stesso, trasformandosi nella nostra Luna. Teia si sarebbe così fusa con la Terra, mentre la Luna avrebbe avuto origine dal materiale della parte più esterna di una Terra già differenziata, e quindi composta da elementi più leggeri; questo spiegherebbe la mancanza di ferro sulla Luna, mentre le differenze di composizione tra i due corpi celesti sarebbero dovuti all'apporto mineralogico fornito da Teia alla Terra nascente. Vi sono però dei punti poco chiari: la percentuale di ossido di ferro della Luna implica che il materiale protolunare proverrebbe solo da una piccola frazione del mantello terrestre, ed inoltre non c'è prova che la Terra abbia mai posseduto un oceano di lava, come previsto da queste teorie.
b) secondo i sostenitori delle teorie evoluzionistiche, la Luna sarebbe stata un protopianeta formatosi altrove nel sistema solare e catturato in un secondo tempo dalla gravità terrestre (vedi il periodo Devoniano); questa ipotesi però si scontra con il fatto che un protopianeta così grosso si sarebbe probabilmente scontrato con la Terra piuttosto che venire catturato da essa, e comunque sarebbe stata necessaria la presenza all'epoca di un'estesa atmosfera terrestre che dissipasse l'energia prodotta dall'evento, cosa ritenuta dai più improbabile.
c) i propugnatori della coformazione pensano invece che la Luna si sarebbe formata con una parte del materiale che diede origine alla Terra. Anche in questo caso  c'è però un problema: questa ipotesi non spiega in modo soddisfacente alcune differenze evidenti tra la geologia terrestre e quella lunare, come lo svuotamento del ferro metallico sulla Luna o il fatto che sulla Terra non si trova traccia delle regoliti (così abbondanti sulla Luna). Inoltre sia la teoria della cattura che quella della coformazione non rendono ragione del fatto che il satellite della Terra è unico: i pianeti gioviani hanno una carrettata di satelliti, mentre quelli terrestri ne sono del tutto privi (i due microsatelliti di Marte, Phobos e Deimos, presumibilmente sono asteroidi catturati dalla vicina fascia asteroidale).
d) una quarta ipotesi è quella della fissione: in questo modello la Terra primordiale era un corpo rotante in rapido movimento, in cui le forze centrifughe erano solo di poco inferiori a quelle gravitazionali, ed in questa situazione un piccolo incremento della velocità angolare avrebbe permesso ad una grossa frazione del nostro pianeta di staccarsi dall'Equatore. Anche questa teoria presenta però un punto debole: per causare il distacco sarebbe stato necessaria una rotazione terrestre iniziale troppo elevata rispetto a quella che si suppone esistente all'epoca, e per questo la teoria della fissione era stata abbandonata negli anni settanta. Di recente tuttavia Rob de Meijer, ricercatore della University of the Western Cape in Sudafrica, e Wim van Westrenen della Universiteit van Amsterdam hanno proposto una variante di questa ipotesi: la Luna si sarebbe formata a seguito di un potentissima esplosione nucleare, la quale avrebbe generato un anomalo aumento di velocità. In pratica le forze centrifughe avrebbero concentrato sul piano equatoriale gli elementi più pesanti, come l'uranio e il torio, vicino alla superficie terrestre, e l'alta concentrazione avrebbe dato vita ad un georeattore naturale, la cui esplosione avrebbe permesso il distacco della Luna. A quei tempi infatti la percentuale isotopica di uranio 235, un isotopo altamente fissile, era più elevata di quella attuale, e sufficiente per raggiungere la massa critica che innesca la fissione nucleare. L'esistenza dei georeattori non è solo un'ipotesi, dal momento che nel 1970 è stata documentata l'esistenza di un georeattore attivo tra 2 e 1,5 miliardi di anni fa a Oklo, in Gabon. Indubbiamente si tratta di un'ipotesi affascinante, ma difficile da dimostrare.
La Terra con due lune
Una cosa è certa: comunque sia nata, la Luna ha avuto un'influenza fortissima sulla vita del nostro pianeta. Senza di essa, ad esempio, non si verificherebbe l'alternarsi delle maree, così come sarebbe diverso il clima. Anche per molti animali la vita sarebbe diversa perché mancherebbe loro un elemento di riferimento dei loro cicli vitali. E la presenza di due lune probabilmente creerebbe effetti mareali incompatibili con l'esistenza della vita.
Eppure, c'è chi sostiene che, in un lontano passato geologico, la Terra avesse proprio due lune. La scoperta delle notevoli differenze morfologiche tra le due facce della Luna è infatti un problema di vecchia data: il lato che guarda verso di noi è relativamente basso e ricco di mari e crateri, mentre la topografia della faccia nascosta è caratterizzata da vasti altopiani, e la crosta ha uno spessore decisamente maggiore. Orbene, secondo alcuni planetologi dell'Università della California a Santa Cruz, gli altopiani della faccia nascosta potrebbero essere i resti di una collisione del nostro satellite con una seconda luna più piccola. Eseguendo simulazioni al computer di un impatto tra la Luna e un satellite dotato di una massa pari a circa un trentesimo di quella della Luna stessa, gli studiosi hanno scoperto che, in una collisione a bassa velocità, l'impatto non formerebbe un cratere, né una elevata fusione della crosta, e la maggior parte del materiale si accumulerebbe sull'emisfero colpito come uno spesso strato di nuova crosta solida.
Il modello permetterebbe anche di spiegare le variazioni nella composizione della crosta lunare, che dal lato che guarda verso la Terra è relativamente più ricca di potassio, di elementi delle terre rare e di fosforo, che rappresentano il cosiddetto kreep. Questi elementi, al pari di uranio e torio, dovevano essere concentrati in un oceano di magma intrappolato sotto la crosta. Nelle simulazioni si osserva che, in seguito alla collisione, questo strato kreep viene spinto verso l'emisfero opposto, ponendo i presupposti per le peculiarità geologiche da noi rilevate.
Per spiegare la formazione degli altopiani sono stati tuttavia proposti anche altri modelli, secondo i quali il modellamento della crosta lunare potrebbe essere dovuto alle forze di marea gravitazionali. Per ora, concordano i ricercatori, non ci sono dati sufficienti per decidere quale dei modelli offra la spiegazione migliore: probabilmente solo il ritorno di astronauti sulla Luna e la raccolta di altri campioni lunari potrà dirci quale di queste due ipotesi è la più corretta.

La Terra con gli anelli?
Vi è un'ulteriore ipotesi circa la Luna, cui vale la pena di accennare. Sébastien Charnoz dell'Università di Parigi-Diderot e Aurélien Crida dell'Università di Nizza-Sophia Antipolis hanno proposto che la nostra Luna si sia formata a partire da un sistema di anelli scomparso ormai da lungo tempo, simile a quello che ancora circonda Saturno, e lo stesso varrebbe per molti dei satelliti in orbita attorno agli altri pianeti. Attraverso un modello teorico, i due ricercatori hanno scoperto che la nascita della Luna sarebbe iniziata ai bordi di un anello planetario, dove un satellite può prendere forma senza essere frantumato dall'attrazione gravitazionale del pianeta. Lì, i satelliti si "coagulano" a partire dal materiale dell'anello prima di migrare verso l'esterno. Poiché il sistema ad anello sforna piccole lune una dopo l'altra, questi oggetti si fondono per formare i satelliti più grandi, che possono poi fondersi tra loro mentre si allontanano a spirale dal pianeta. Secondo Charnoz e Crida, l'ipotesi che i satelliti si siano condensati insieme al pianeta padre da una vorticosa nube di polveri e gas, proprio come si pensa che abbiano potuto prendere forma i pianeti attorno al Sole, potrebbe funzionare bene per i satelliti più grandi, come i quattro famosi satelliti Medicei di Giove, ma non altrettanto bene per il corteo di piccole lune che seguono gli altri pianeti giganti, finora considerate solo un sottoprodotto della formazione dei satelliti maggiori.
La nuova ipotesi spiega un importante elemento comune ai satelliti con orbita regolare di Saturno, Urano e Nettuno, e cioè il fatto che le lune più lontane dai loro pianeti tendono ad avere massa maggiore di quelle più vicine. Come una palla di neve che rotola a valle, i satelliti in via di coalescenza sarebbero cresciuti sempre di più, man mano che si allontanavano dal pianeta e dai suoi anelli, con una serie di nuove fusioni avvenute lungo la strada. Il risultato finale è un sistema di satelliti ben ordinato, con le lune più piccole all'interno, sorte a partire da alcuni minuscoli protosatelliti, e grandi lune di più lontane, formatesi da un maggior numero di essi. « L'aspetto migliore di questo lavoro consiste nel fatto che spiega il legame tra la massa di un satellite e la sua distanza orbitale », ha osservato il planetologo David Nesvorny del Southwest Research Institute a Boulder, in Colorado. Questa ipotesi non esclude quella di Teia, cioè del gigantesco impatto di un protopianeta sulla Terra appena formatasi, ma sostiene che il materiale espulso avrebbe prima formato un anello appiattito intorno al pianeta, che poi si è coagulato nella Luna. A differenza degli anelli di Saturno, che avrebbero espulso numerose protolune destinate a formare vari piccoli satelliti, l'anello relativamente massiccio della Terra avrebbe riversato tutto il suo materiale in un unico grande satellite prima di dissiparsi. « Si diffuse molto rapidamente, », ha spiegao Crida, « per cui ha avuto il tempo di formare solamente un grande satellite ».
Affascinante, vero? Provate ad immaginare una terra con gli anelli... Però la nuova ipotesi non è certo priva di problemi. Anzitutto non sembra applicabile ai satelliti di Giove, che non obbediscono alla stessa correlazione fra massa e distanza valida per gli altri sistemi di lune. Crida osserva però che Giove è stato il primo pianeta a formarsi, e la coalescenza dei satelliti può essere avvenuta in condizioni diverse. E poi c'è l'ovvia domanda: se i sistemi ad anello come quello di Saturno erano così estesi e un tempo ornavano anche Urano e Nettuno, ora dove sono? I due ricercatori francesi ammettono che il destino degli anelli è una questione aperta, ma ritengono che l'esistenza degli attuali satelliti sia una prova indiziaria del fatto che anche Urano e Nettuno avessero anelli così grandi e brillanti.
L'origine dell'acqua
Da dove viene la maggior parte dell'acqua e degli altri elementi volatili oggi presente sulla Terra? L'ipotesi oggi più accreditata parla di un contributo prevalente da parte delle comete, che altro non sono se non grandi palle di neve sporca, e di alcuni tipi di meteoriti. Ma c'è anche chi va controcorrente. Secondo alcuni scienziati della Carnegie Institution a Washington, del Natural History Museum di Londra e della City University of New York sarebbero meteoriti e asteroidi, come le condriti carbonacee, le fonti più probabili dell'acqua terrestre. L'opinione finora prevalente è che le comete abbiano avuto origine oltre l'orbita di Giove, ai margini del sistema solare, e che si siano poi spostate verso l'interno, portando notevoli quantità di materiali volatili sulla Terra. In questo caso, il ghiaccio delle comete e quello trovato nei resti di ghiaccio presenti sotto forma di silicati idrati nelle condriti carbonacee dovrebbero avere composizioni isotopiche simili. In particolare, gli oggetti che si sono formati a maggiore distanza dal Sole dovrebbero avere in media un contenuto di deuterio più elevato di quello presente nei corpi che si sono formati più vicino, e gli oggetti che si sono formati nelle medesime regioni dovrebbero avere composizioni isotopiche simili. Confrontando il contenuto in deuterio nell'acqua delle condriti carbonacee e quello delle comete è possibile dire se le meteoriti si sono formate nelle regioni che hanno ospitato la formazione delle comete.
Nel corso di questo studio i ricercatori hanno analizzato campioni provenienti da 85 condriti carbonacee, scoprendo che hanno un contenuto di deuterio molto più basso. Le meteoriti devono dunque essersi formate nella fascia di asteroidi fra le orbite di Marte e Giove. I ricercatori sostengono perciò che anche la maggior parte degli elementi volatili presenti sulla Terra provenga dalle condriti e non da comete. « I nostri risultati forniscono importanti nuovi vincoli per l'origine delle sostanze volatili nel sistema solare interno, compresa la Terra », ha detto Cornel Alexander, tra i firmatari della ricerca, « e avranno importanti implicazioni per gli attuali modelli della formazione ed evoluzione orbitale dei pianeti e dei piccoli corpi del Sistema Solare. »
La "linea della neve"
Circa il 71 % della superficie terrestre è oggi ricoperta da acqua salata, ma l'apparenza inganna: in realtà l'acqua costituisce meno dell'1 % dell'intera massa del nostro pianeta, e quella che c'è come si è visto è stata portata sulla Terra dalle comete o dai meteoriti in un lontano passato. Perché la Terra è così "asciutta"? Mario Livio e Rebecca Martin dello Space Telescope Science Institute di Baltimora hanno proposto una spiegazione: al contrario di quanto creduto finora, essi ritengono che la Terra si sia formata in un ambiente così caldo da vaporizzare tutto il ghiaccio esistente nell'orbita terrestre, lasciando così il nostro pianeta "all'asciutto". Secondo gli attuali modelli di formazione del Sistema Solare, nelle zone più esterne del disco protoplanetario di gas e polveri le temperature erano così basse da consentire la presenza e l'accumulo di ghiaccio d'acqua.  Di conseguenza, tutti i pianeti formatisi all'esterno di un confine detto "linea della neve" hanno potuto mantenere un'alta percentuale di acqua fin dalla loro formazione. La "linea della neve" si trova alla distanza dal Sole alla quale le temperature risultano inferiori a – 115 °C, e per il Sistema Solare attuale si trova nella fascia degli asteroidi fra Marte e Giove. Questo scenario spiega perché i pianeti esterni come Urano e Nettuno contengono una percentuale di acqua che può raggiungere il 40 %. Tuttavia la linea della neve ha cambiato posizione nel corso del tempo in funzione delle caratteristiche fisiche del Sole e del disco protoplanetario. Secondo la maggior parte degli scienziati, in passato la linea della neve si trovava all'interno dell'orbita terrestre; il nostro pianeta avrebbe quindi dovuto formarsi in un ambiente ricco di ghiaccio, e contenere anch'esso un'altra percentuale di acqua. Ma i dati geologici raccontano una storia completamente diversa.
Secondo i modelli convenzionali, 4 miliardi e mezzo di anni fa (quando ha preso avvio l'Anno della Terra!) la radiazione luminosa emessa dal Sole neonato sarebbe stata sufficiente a ionizzare il gas nel disco protoplanetario. La ionizzazione del gas avrebbe quindi originato fenomeni di turbolenza capaci di favorire l'accrescimento di gas e polveri sul Sole. L'attrito del materiale in accrescimento avrebbe così riscaldato il disco, muovendo la linea della neve a grandi distanze dal Sole, pari a dieci volte il raggio dell'orbita terrestre. Con il passare del tempo, il materiale si sarebbe poi esaurito, interrompendo l'accrescimento e abbassando la temperatura del disco. In questa nuova fase, la linea della neve di sarebbe così spostata fino all'interno dell'orbita terrestre. « Se la linea della neve fosse stata all'interno dell'orbita terrestre quando il nostro pianeta si stava formando », ha spiegato invece Rebecca Martin, « la Terra avrebbe dovuto essere un pianeta ghiacciato. » Infatti, secondo Mario Livio, l'ipotesi che il disco protoplanetario del Sole fosse ionizzato non è così ragionevole: « gli oggetti molto caldi come le nane bianche e le sorgenti di raggi X rilasciano abbastanza energia da ionizzare i loro dischi di accrescimento, ma le stelle giovani non hanno abbastanza radiazione o abbastanza materia in accrescimento da fornire l'energia sufficiente a ionizzare i dischi ». I due ricercatori hanno quindi ricostruito l'evoluzione della linea della neve nel caso di un disco non ionizzato, evidenziando uno scenario completamente diverso.
In assenza di ionizzazione, la turbolenza nel disco è ridotta e l'accrescimento non ha luogo. Nelle regioni più interne si forma così una "zona morta" che si estende ben oltre l'orbita terrestre. All'esterno di essa, il materiale si accumula ed aumenta la sua temperatura, spostando la linea della neve a distanze ancora maggiori. Secondo questo nuovo modello, la formazione della Terra sarebbe quindi avvenuta all'interno della linea della neve, e non all'esterno come previsto dai modelli convenzionali! « A differenza del modello standard di accrescimento », ha concluso Livio, « la linea della neve nella nostra analisi non si sposta mai all'interno dell'orbita terrestre. Al contrario, resta molto più lontano dal Sole dell'orbita terrestre, il che spiega perché la nostra Terra è un pianeta asciutto ». Di conseguenza la Terra, come pure Mercurio e Venere, è nata una regione in cui le temperature erano così alte da vaporizzare ogni traccia di ghiaccio. Ma per fortuna il nostro pianeta non è rimasto arido a lungo. Molte comete e asteroidi hanno successivamente bombardato la Terra, arricchendola di acqua in superficie e trasformandola così nel pianeta azzurro che noi conosciamo.
L'ipotesi della panspermia
E veniamo dunque ad accennare qualcosa riguardo al problema della nascita della vita, una questione che sicuramente esonda al di là dei confini della paleontologia e della biologia, per invadere il campo della filosofia e della religione. Delle teorie più accreditate circa la comparsa della vita sulla Terra, parleremo con ampiezza nella pagina dedicata al Precambriano, ma parlando in generale della formazione del Sistema Solare non è possibile non accennare almeno ad una teoria molto in voga negli ultimi anni, secondo cui la vita (e quindi io che scrivo e voi che leggete non è nata in conseguenza di processi chimici avvenuti in una sorta di "pozza calda" piena di "brodo primordiale" in qualche angolo del nostro pianeta primigenio, e quindi non sarebbe un fenomeno esclusivo della Terra, bensì sarebbe arrivata su di essa da qualche altro posto, addirittura dall'esterno del Sistema Solare. Questa teoria prende il nome di panspermia.
L'idea di panspermia fu proposta per la prima volta dal filosofo greco Anassagora di Clazomene (497-428 a.C.), ma per molto tempo è stata scartata come inverosimile. Come dice il nome, essa afferma semplicemente che la vita e diffusa in ogni regione dello spazio sotto forma di "spore" che si propagano per tutto l'universo. In un certo numero di oggetti cosmici all'apparenza molto poco accoglienti per la vita, in particolare le comete, si trovano effettivamente grandi quantità e varietà di composti organici complessi; grazie alla spettroscopia, poi, gli astronomi hanno individuato vari tipi di molecole organiche nello spazio, sospese in nubi di gas o protette da grumi di particelle di polvere. Si va da composti semplici come il metano, l'acido cianidrico e l'alcol etilico, a molecole assai più complesse come gli aminoacidi, i componenti elementari delle proteine, di cui se ne sono trovati più di 70 nelle meteoriti. Le comete, oggetti celesti ancora profondamente misteriosi, oggi come ai tempi di Gesù Bambino, fanno parte di una classe di oggetti ghiacciati che probabilmente circondano ogni sistema stellare, ed anzi si formano ai margini delle nubi interstellari. Le comete e gli altri oggetti simili della Fascia di Kuiper potrebbero essere gli ambasciatori di un tempo antecedente alla formazione del sistema solare.
Chandra Wickramasinghe (nato nel 1939) I principali sostenitori moderni della panspermia sono stati l'inglese Fred Hoyle (1915-2001) e il singalese Chandra Wickramasinghe (1939-vivente), i quali non solo hanno affermato con convinzione che la Terra è stata inseminata miliardi di anni fa da forme di vita provenienti dallo spazio, ma addirittura che ancor oggi sul nostro pianeta continuano a piovere spore aliene. Secondo i due fisici, questo fenomeno potrebbe spiegare le epidemie spesso misteriose che periodicamente affliggono l'umanità. Ad esempio, Hoyle sosteneva che sulla Terra cadono ogni anno dallo spazio circa 40.000 tonnellate di materiale carbonioso, di cui una tonnellata circa sarebbe composta da veri e propri batteri o spore batteriche. Ne12003, all'apice dell'epidemia di SARS in Asia, che uccise centinaia di persone, Wickramasinghe sostenne pubblicamente che il virus responsabile di quel flagello poteva avere origini aliene.
Una versione minimale di quest'ipotesi, detta litopanspermia, sostiene che la vita è nata, una o più volte, su un certo pianeta del sistema solare, per poi diffondersi su altri corpi celesti trasportata da rocce spaziali strappate alla superficie di un pianeta a causa dell'impatto di una meteora. Una versione interstellare più ampia ipotizza invece che la vita possa addirittura diffondersi tra diversi sistemi stellari, usando come vettori privilegiati le comete. Ma c'è anche una terza variante della panspermia, molto cara agli autori di fantascienza, secondo cui che la vita (o almeno i suoi precursori) permea lo spazio, annidandosi nella polvere cosmica o negli sciami di corpi ghiacciati che probabilmente circondano ogni stella e sono disseminati tra l'una e l'altra. Secondo quest'ultima possibilità la vita in realtà è una proprietà intrinseca dell'universo, come l'interazione gravitazionale o la costante di Planck, e non può non avere origine, essendo nata in seguito a processi che ebbero luogo appena dopo, o addirittura durante, lo stesso Big Bang. Continuando ad estrapolare, si arriva ad ipotizzare che la vita stessa possa far parte del "principio organizzativo" dell'universo, avendo avuto origine proprio nel Big Bang: in altre parole, l'Universo sarebbe come è a causa della vita.
C'è pure una variante di questa ipotesi, ripresa anche dalla serie di fantascienza "Star Trek, The Next Generation", secondo cui da qualche parte dell'universo qualche forma di vita intelligente starebbe deliberatamente "inseminando" il cosmo, sparando enormi quantità di DNA nello spazio. Nella puntata intitolata "Il segreto della vita" della serie di telefilm suddetta, il capitano Jean-Luc Picard decide di realizzare l'ultimo desiderio di Richard Galen, suo professore di archeologia, ed in concorrenza con varie astronavi aliene si mette a raccogliere il DNA di vari pianeti per poter mettere in funzione un "programma" costituito da un puzzle genetico scoperto da Galen, che sarebbe nascosto proprio dentro il DNA degli abitanti della Galassia. Quando lo scontro armato con i rivali alieni appare inevitabile, il programma viene attivato e subito compare l'ologramma di un umanoide, registrato miliardi di anni fa, che spiega di aver deciso l'inseminazione perchè la sua razza si era trovata sola nella Galassia (un'angoscia sperimentata anche da noi uomini), ed invita tutti i suoi "discendenti" alla fratellanza ed alla cooperazione reciproca. Naturalmente questo messaggio resta inascoltato, e tutti gli umanoidi se ne vanno nemici come prima. Al di là di ogni bella trasposizione cinematografica, quest'ipotesi suona piuttosto assurda ma, anche se non ci crederete, è stata presa sul serio da alcuni scienziati famosi.
In realtà, l'ipotesi della panspermia non spiega affatto né come né dove e nata la vita, ma spinge soltanto la data della sua origine molto all'indietro, fino a prima dell'inizio stesso della vita della Terra. A prima vista, la panspermia sembra un'inutile complicazione di un problema già di per sé assai complicato. Vi sono però vari argomenti a suo favore, tra cui il più convincente sarebbe il tempo estremamente breve, secondo alcuni sospettosamente breve, che la vita avrebbe impiegato per svilupparsi sul pianeta Terra dopo la formazione di quest'ultima. Le stromatoliti, resti fossili di colonie batteriche marine di cui oggi si possono osservare esempi viventi nell'Australia occidentale, risalgono a 3,5 miliardi di anni fa, ed in Groenlandia sono state trovate rocce risalenti a circa 3,8 miliardi di anni fa, contenenti formazioni ferrose a bande che si pensa siano opera di processi di fotosintesi clorofilliana.
Ma la Terra ha circa 4,5 miliardi di anni, e si ritiene che durante le prime centinaia di milioni di anni di vita sia stata sottoposta ad un terrificante bombardamento da parte di detriti del sistema solare. A intervalli di qualche decina di milioni di anni, la Terra veniva colpita da rocce di dimensioni tali da sterilizzarla completamente; come si è detto, anche la Luna avrebbe avuto origine da un'enorme palla di magma liquido lanciata nello spazio in seguito all'impatto di un oggetto grande quanto Marte. Allora, ogni forma di vita presente oggi sulla Terra deve discendere da un organismo che venne alla luce dopo l'ultimo caso di sterilizzazione. Per lo sviluppo della vita, quindi, non resta molto tempo: al massimo qualche centinaio e, secondo alcuni, solo qualche decina di milioni di anni. Per alcuni non e plausibile. L'universo sarebbe stato "favorevole alla vita", cioè avrebbe reso disponibili le sostanze chimiche indispensabili per la sua nascita, per un intervallo di tempo molto più lungo. Secondo i sostenitori della panspermia è staticamente più probabile, che la vita sia emersa nel corso di questo periodo molto più lungo, durato miliardi di anni, e non durante la "finestra temporale" piuttosto limitata consentita dalla Terra.
Che i componenti cruciali della vita possono aver avuto davvero origine nello spazio lo dimostra del resto l'analisi di alcuni meteoriti condotta nel 2012 dall'Astrobiology Analytical Laboratory del Goddard Space Flight Center di Greenbelt, nel Maryland. Esso ha analizzato campioni ricavati da 14 meteoriti raccolti in Antartide, e contenenti minerali che portano i segni di un'esposizione a temperature superiori a 1000° C. In questi campioni sono stati ritrovati alcuni amminoacidi. « Gli amminoacidi in meteoriti ricchi di carbonio sono stati trovati anche in passato, ma non ci aspettavamo di trovarne in questi specifici gruppi, a causa delle alte temperature che hanno sperimentato e che tendono a distruggere gli stessi amminoacidi », ha spiegato Aaron Burton, ricercatore del Goddard. « Tuttavia, il tipo di amminoacidi che abbiamo scoperto in questi meteoriti indica che ebbero origine grazie a un effettivo processo ad alta temperatura, via via che gli asteroidi andavano gradualmente a raffreddarsi. » Burton ha ipotizzato che gli amminoacidi si siano formati mediante processi ad alta temperatura che coinvolgono un gas contenente idrogeno, monossido di carbonio e azoto, chiamati reazioni di Fischer-Tropsch (FTT): esse si verificano tra 93° e 537° C e sono facilitate dalla presenza di minerali (sono utilizzate, per esempio, per produrre olio lubrificante di sintesi e altri idrocarburi). Si ritiene quindi che gli asteroidi da cui si sono originati questi meteoriti siano stati riscaldati ad alte temperature per effetto delle collisioni o del decadimento di elementi radioattivi. Via via che gli asteroidi si raffreddavano, le reazioni FTT potrebbero essersi verificate sulla loro superficie, utilizzando i gas intrappolati in minuscoli pori.
Vale la pena di ricordare che tre ricercatori della University of Buckingham (Regno Unito) sostengono di aver scoperto delle alghe, e precisamente delle diatomee fossilizzate, proprio in una condrite carbonacea caduta nelll'isola di Sri Lanka il 29 dicembre 2012, vicino al villaggio di Araganwila; tali fossili assomiglierebbero a quelle terrestri della specie Sellaphora blackfordensis. I tre si dicono certi che la meteorite non è stata contaminata da composti di origine terrestre, in quanto è stata vista cadere dal cielo e raccolta subito dopo, e che quelli che sembrano essere fossili di diatomee sono ben incastonati nella sua matrice. Se confermati, questi nuovi dati sembrerebbero fornire un forte e decisivo supporto alla teoria panspermica; la scoperta però è molto controverso perchè il suo autore principale è proprio Chandra Wickramasinghe, il principale partigiano della panspermia, che nel presentare i risultati si è fatto prendere dall'entusiasmo: un po' come se il Cancelliere tedesco presentasse al mondo uno studio nel quale si cerca di dimostrare che i tedeschi hanno un Quoziente Intellettivo più alto della media degli altri popoli! Già nel 1996 David McKay della NASA pubblicò uno studio in cui si affermava che all'interno della meteorite marziana ALH-84001 erano stati individuate delle microstrutture che assomigliavano a microorganismi terrestri; in seguito, però, questa scoperta non fu confermata da ulteriori studi, secondo cui i presunti microfossili deriverebbero da contaminazioni di biofilm terrestri. Dunque è presto per poter affermare che abbiamo scoperto i primi esseri viventi piovuti dallo spazio.
Ai limiti estremi della vivibilità
Inoltre, in tempi recenti si è scoperto che la vita sulla Terra può svilupparsi rigogliosamente in una varietà di ambienti molto più ampia di quanto si pensava un tempo. Fino a pochi decenni fa per esempio si era convinti che la vita fosse impossibile a temperature superiori a 60° (da cui deriva la "bollitura" nelle autoclavi degli strumenti chirurgici per sterilizzarli). Oggi sappiamo che alcune specie di batteri (detti non a caso "termofili") non solo sopravvivono, ma addirittura prosperano a temperature superiori al punto di ebollizione dell'acqua. Essi vivono intorno a bocche vulcaniche poste sul fondo degli oceani, note come fumarole nere, e sono assolutamente indipendenti dalla luce del Sole: secondo alcuni furono microrganismi come questi, i primi pionieri del nostro Pianeta. La vita, inoltre, può far fronte anche a condizioni di estremo freddo. Al di sotto dei ghiacci polari è stati trovato un batterio chiamato Colwellia che vive a temperature di 40°. I microrganismi "psicrofili", che amano il freddo, hanno fatto ricorso a meccanismi complicati ed ingegnosi per impedire all'acqua contenuta nelle loro cellule di ghiacciare: certe proteine gelatinose, chiamate esopolimeri, impediscono la formazione dei cristalli di ghiaccio che frantumano le cellule.
Deinococcus radiodurans (foto di Michael Daly) La vita può tollerare non solo temperature assurde, ma anche livelli di pH estremi, come attesta la scoperta di microrganismi che crescono tranquillamente in sorgenti termali da cui sgorga acido solforico. Deinococcus radiodurans, il batterio raffigurato nell'immagine qui sotto a destra, appare in grado di sopravvivere a livelli estremi di radiazioni, letali per qualunque altro essere vivente. Anche se vi è ancora dissenso in proposito nella comunità scientifica, alcune scoperte sembrerebbero dimostrare addirittura che alcuni minuscoli organismi, gli ipotetici nanobi, sono in grado di sopravvivere addirittura tra i 10 e i 20 chilometri di profondità, a temperature e pressioni davvero estreme. Sono state poi scoperte spore vitali dentro cristalli che risalgono a centinaia di milioni di anni fa, ancora in grado oggi di svilupparsi in esseri viventi. Questi gruppi di esseri viventi sono complessivamente conosciuti come "estremofili". La loro esistenza rende difficoltoso decidere quale sia l'habitat da considerare "normale" per la vita sulla Terra: in superficie, negli oceani e nell'aria, come pensavamo tutti fino a poco tempo fa, oppure esiste una biosfera enormemente più grande nascosta sottoterra, nelle rocce, sepolta nei sedimenti, sotto il ghiaccio o negli strati superiori dell'atmosfera?
Tutto questo amplia di conseguenza la gamma degli habitat possibili per la vita nell'universo: se vogliamo trovare vita aliena, non dobbiamo più limitarci a cercare pianeti verdazzurri coperti di acqua liquida. Se esistono batteri psicrofili in grado di metabolizzare a 40°, intere regioni del sistema solare, dai grandi satelliti dei pianeti esterni fino agli innumerevoli sciami di oggetti ghiacciati nella Fascia di Kuiper, dove le temperature sono davvero molto basse, appaiono all'improvviso molto più ospitali, tenendo conto del fatto che all'interno questi oggetti potrebbero essere più caldi a causa del decadimento di sostanze radioattive.
La scoperta che la vita è più resistente e adattabile di quanto si pensasse è ritenuta dai più una prova contro la panspermia, poiché suggerisce che la gamma dei luoghi terrestri in cui può essere nata la vita potrebbe essere molto più ampia di quando scritto sui testi accademici fino a pochi anni fa. Può darsi, ad esempio, che l'assunto dell'inabitabilità della Terra durante le prime centinaia di milioni di anni sia da rivedere; se i batteri possono sopravvivere a 20 chilometri sottoterra, forse la vita poté resistere agli attacchi più violenti da parte dei meteoriti durante il periodo Adeano. La vita dunque si e evoluta in superficie ed è migrata verso il basso, o piuttosto si è evoluta sottoterra e poi è salita alla luce quando il cielo si è rasserenato? E se si fosse evoluta nella stratosfera?
Ma gli estremofili, oltre a suggerire che forse agli inizi la vita ebbe minori difficoltà a prendere piede sulla Terra di quanto non pensavano i biologi, insegnano anche che la vita, anche solo al livello di spore, potrebbe essere abbastanza robusta da sopravvivere ai rigori dello spazio interplanetario e perfino interstellare, come suggerisce l'ipotesi della panspermia: il freddo dello spazio non rappresenta dopotutto un ostacolo se un microbo che si è evoluto nel mite clima terrestre può continuare a sopravvivere a 200°! Insomma, quelle stesse prove usate da alcuni contro la panspermia, sono usate da altri come indizi a favore di essa. Se davvero durante l'Adeano tutte le stirpi viventi furono cancellate dai violentissimi impatti con planetoidi, i fossili più antichi di cui disponiamo in effetti potrebbero essere quelli di forme di vita aliene!
La teoria è verificabile sperimentalmente? In un esperimento effettuato nel 2001, la NASA ha usato un proiettile ad alta velocità per cercare di riprodurre l'effetto di una cometa ricca di aminoacidi che cade sulla Terra a una velocità di migliaia di chilometri all'ora. Si è scoperto che l'impatto, invece di spezzettare gli aminoacidi, come si presumeva, li spinge invece ad unirsi formando catene peptidiche, composti polimerici che hanno un livello di complessità immediatamente inferiore a quello delle proteine. Ed infatti si sono trovati composti aromatici azotati quasi ovunque nello spazio: nelle comete, nelle nubi di polvere interstellare e nell'atmosfera dei pianeti esterni. Le condriti carbonacee, un tipo particolare di meteoriti, contengono i composti carboniosi alieni più complessi che si conoscano, tra cui aminoacidi e zuccheri.
In un articolo pubblicato su "Science" nel febbraio 2004, la professoressa Sandra Pizzarello dell'Arizona State University ha sostenuto che la chiralità, cioè la tendenza delle molecole a essere levogire o destrogire, delle proteine e degli zuccheri nelle forme di vita terrestri potrebbe essere collegata al materiale meteoritico che ha colpito il nostro pianeta per miliardi di anni. Sandra Pizzarello ha scoperto che in esperimenti in cui la sintesi degli zuccheri veniva realizzata in laboratorio in condizioni giudicate simili a quelle della Terra primordiale, una pioggia costante di sostanze chimiche con la chiralità giusta (precisamente levogire) fa invertire la chiralità agli zuccheri "terrestri". Ciò non significa che Sandra Pizzarello abbia dimostrato che la vita è arrivata dalle meteoriti, beninteso, ma che è quanto meno possibile che l'arrivo di meteoriti abbia influenzato in misura profonda l'evoluzione della vita, quale che sia il modo in cui ebbe inizio sul nostro pianeta.
Un frammento della meteorite caduta nel lago Tagish, in CanadaSappiamo che queste molecole organiche sono presenti nell'universo da moltissimo tempo, senza dubbio da prima che nascesse il nostro mondo. Uno dei candidati principali al titolo di "oggetto più antico della Terra" è una meteorite schiantatasi nel 2000 sulla superficie ghiacciata del lago Tagish, in Canada, visibile nella foto a fianco. L'analisi della meteorite del lago Tagish compiuta dai ricercatori della University of Western Ontario e pubblicata su "Science" nel 2006 hanno rivelato che le sferette cave di carbonio, con un diametro pari a pochi millesimi di millimetro, trovate nei frammenti della meteorite sarebbero persino più antiche della Sole! In altre parole, è possibile che all'interno di questi frammenti di roccia si trovino particelle antiche quanto l'universo stesso, contenenti composti complessi, aminoacidi compresi, mescolati con granuli di minerali argillosi, silicati con una struttura a strati. Qualcuno ha ipotizzato che questi composti inorganici potrebbero essere i possibili "uteri" per la formazione di un qualche genere di entità prebiotica, come precursori degli acidi nucleici.
A questo punto è facile immaginare quanta sensazione ha suscitato l'annuncio, fatto nel marzo 2011 da Richard Hoover, un astrobiologo che lavora per il Marshall Space Flight Center della Nasa, della scoperta di una forma di vita aliena fossilizzata e giunta sulla Terra dentro un meteorite. La sua straordinaria affermazione è supportata da dieci anni di studi su fossili di batteri: Hoover ha esaminato forme estremamente rare di meteoriti, chiamate condriti carboniose, ritrovate in ogni parte del mondo, dall'Antartide alla Siberia fino all'Alaska. I fossili da lui identificati come "alieni" appaiono lunghi e filamentosi, ed assomigliano ai batteri terrestri noti come Velox Titanospirillum. « Il fatto che molti dei batteri siano riconoscibili e si possano confrontare con specie terrestri lega indissolubilmente la vita sul nostro pianeta a quella portata dallo spazio », ha dichiarato Hoover sull'onda dell'entusiasmo. Hoover sostiene però che i batteri da lui identificati non possiederebbero azoto. Naturalmente la maggior parte del mondo accademico si è dimostrata scettica, in attesa di nuovi test indipendenti.
Una pietra miliare nella storia dell'ipotesi panspermica è da considerarsi il rivoluzionario studio presentato al Congresso Europeo di Scienze Planetarie tenutosi nel settembre 2012 a Madrid da un gruppo di astrofisici dell'Università di Princeton, dell'Università dell'Arizona e del Centro Spagnolo di Astrobiologia. Uno degli autori di questo studio, la professoressa Renu Malhotra, Presidente del Programma di Astrofisica Teorica all'Università dell'Arizona, ha dichiarato: come si è visto sopra, « il Sole si è formato in un ammasso stellare comprendente poche migliaia di stelle. Tale ammasso si è poi disperso in stelle singole alcune centinaia di milioni di anni fa. Noi abbiamo concluso che delle rocce proiettate all'esterno da un sistema planetario hanno viaggiato nello spazio ed alcune di esse (circa l'uno per mille) viaggiavano a velocità modeste. Proprio grazie alla loro ridotta velocità avevano un'alta probabilità di venire catturate da un sistema planetario vicino, quando ancora l'ammasso stellare e i pianeti erano ad uno stato nascente ». Fino a pochi anni fa si escludeva che un pianeta potesse, con la sua sola forza gravitazionale, attirare e catturare grossi frammenti proiettati nello spazio da un altro sistema planetario. I calcoli attuali, però, danno un risultato diverso. « I nostri calcoli ci dicono che le rocce a bassa velocità subiscono un processo di cattura planetaria molto diverso da quello immaginato fino ad adesso. Subentra la teoria del caos e una teoria matematica chiamata "bordi di debole stabilità" (WSB, Weak Stability Boundary Theory). La probabilità di cattura per una roccia a bassa velocità (circa 100 metri al secondo) risulta essere circa un miliardo di volte superiore a quella di una roccia di media o alta velocità ».
Per la Malhotra non ci sono dubbi: « La durata dell'ammasso stellare di cui il Sole faceva parte si sovrappone con il lasso di tempo durante il quale si formò il nostro Sistema Solare, quando esso proiettava molti frammenti rocciosi nello spazio interstellare. E questo a sua volta si sovrappone all'era geologica durante la quale si formò la vita sulla Terra. Plausibilmente, altri sistemi planetari simili al nostro coesistevano e quantità non trascurabili di frammenti rocciosi possono essere stati scambiati tra tali giovani sistemi planetari ». I suoi calcoli suggeriscono che tali scambi di resistentissime spore possano essere avvenuti circa 300 milioni di volte. Chiaramente, sulla Terra dovevano esistere condizioni climatiche e termiche capaci di far prosperare le spore trasportate dei frammenti spaziali: la presenza di acqua in particolare si rivela essenziale. Gli studi di Malhotra e soci confermerebbero che i calcoli tornano. Ma essi insistono su un punto: questa non è la conferma che la vita sulla Terra proviene dallo spazio; è solo la conferma che si tratta di una reale possibilità. « Naturalmente sono ancora irrisolti molti problemi di sopravvivenza biologica nello spazio e dopo un atterraggio brusco; ritengo tuttavia che i nostri lavori possano incitare a proseguire in queste ricerche, in stretta collaborazione con i biologi. Per gli astrofisici e gli scienziati planetari si aprono prospettive di applicazione della teoria WSB a scambi, in ambedue le direzioni, dentro il nostro sistema planetario (per esempio tra la Terra e Marte, o tra la Terra e le lune di Giove). La sfida dei prossimi anni sarà quella di trovare segni affidabili di forme di vita nello spazio e in pianeti diversi dal nostro ».
In ogni caso, per quanto bizzarra ci appaia, oggi l'idea che la vita, o quanto meno i precursori chimici della vita, possano essere arrivati sulla Terra trasportati da materiale cometario, non viene più considerata totalmente assurda: almeno alcuni di quei processi che si presumeva si fossero realizzati in una piccola pozza calda della Terra primordiale potrebbero aver avuto luogo nello spazio profondo, in un tempo in cui l'universo era ancora giovane. Se si arrivasse a dimostrare che davvero l'universo è vivo, non solo sarebbe una scoperta eccezionale anche dal punto di vista filosofico e teologico, ma ci potremmo anche consolare un po'. Forse, a differenza del capitano Picard di Star Trek, non scopriremo quanto è diffusa la vita intelligente attorno a noi, ma almeno sapremo che, se anche dovessimo causare noi stessi la nostra fine, ci sarebbero luoghi del cosmo in cui il grande progetto della vita potrebbe proseguire. Forse la piccola pozza calda dei biologi di metà Novecento in realtà era un oceano grande come il nostro cosmo!
Ma intanto cosa accade sulla Terra appena formatasi?